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Hatcher aveva una guida attenta e veloce, il tachimetro segnava quasi sempre centoquaranta e scendeva di rado sotto i centoventi. Eravamo diretti a nord sulla M1, l’arteria urbana che attraversava la periferia di Londra, costeggiata da edifici tetri, resi ancor più lugubri dalla luce cupa di dicembre.
Tra meno di una settimana sarebbe stato Natale, ma neppure le luci colorate degli addobbi dietro le finestre riuscivano a rallegrare la giornata. Mancava poco al tramonto, e il cielo grigio ardesia era pieno di nubi temporalesche. Secondo i bollettini sarebbe arrivata la neve e c’era già chi scommetteva che sarebbe caduta a Natale. Capivo l’attrattiva della scommessa, non quella della neve. Era fredda, bagnata, deprimente. Nel profondo del cuore sarei sempre stato un californiano. Bramavo il sole come un tossico il crack.
«Apprezzo davvero molto che tu abbia accettato il caso» disse Hatcher. «So quanto sei occupato.»
«Mi fa piacere essere qui» risposi. No, non lo sai, pensai, ed era la verità. In quell’istante avrei potuto essere a Singapore, a Sidney o a Miami, in un posto caldo e soleggiato. Invece mi trovavo a Londra in un giorno gelido di dicembre, a combattere l’assideramento e l’ipotermia e a chiedermi quando sarebbe arrivata la bufera.
La colpa era solo mia. Il principale vantaggio d’essere il capo di te stesso era poter decidere autonomamente. Avevo scelto di venire a Londra per la semplice ragione che quel caso era insolito e quindi interessante, e solo per qualcosa di interessante avrei rinunciato al sole.
Da quando avevo lasciato l’FBI viaggiavo per il mondo dando la caccia ai serial killer. Ricevevo ogni giorno richieste d’aiuto, a volte anche due o tre. Non era facile decidere quali casi accettare: rinunciare poteva significare condannare a morte una persona, spesso anche più d’una, visto che gli assassini seriali continuano a uccidere finché qualcuno non li ferma. Questo dilemma mi aveva fatto passare molte notti insonni quando ero all’FBI. Adesso dormivo meglio, grazie tuttavia all’effetto combinato dei sonniferi, del whisky e del jet lag.
Purtroppo, i mostri da braccare non sono mai mancati. Esistono fin dai tempi di Caino e Abele, e sempre esisteranno. I serial killer sono come le piante infestanti: ne estirpi una e al suo posto ne spuntano altre dieci. Solo negli Stati Uniti pare che attualmente ce ne siano un centinaio, e questa cifra comprende soltanto i killer, non gli incendiari, gli stupratori e tutti gli altri maniaci che hanno come unico scopo arrecare dolore al prossimo.
All’FBI ero il classico agente: vestito impeccabile, scarpe lucidate a specchio, capelli corti. A quel tempo erano neri, tinti, per non farmi notare. In fila con altri cento colleghi, sarei stato indistinguibile.
Oggi mi preoccupo meno del mio aspetto. Le camicie bianche inamidate e gli abiti formali sono scomparsi, sostituiti da jeans, magliette con le immagini di rockstar morte e felpe con cappuccio. Le scarpe lucide hanno ceduto il posto agli scarponcini da lavoro, comodi e pieni di graffi. E i capelli non sono più tinti. Non sono elegante come un tempo, ma accidenti se mi sento molto più a mio agio. Quella divisa da agente federale era una vera e propria camicia di forza.
«Prime impressioni?» Hatcher mi guardò tenendo una mano sul volante mentre la lancetta del tachimetro toccava i centosessanta.
«Ci sono solo due modi perché quell’uomo si fermi: o lo prendete o muore, per cause naturali o no. Gli piace troppo quello che fa per smettere di sua volontà.»
«Dai, Winter, non stai parlando con un pivello. È una descrizione che si applica al novantanove per cento dei serial killer.»
Scoppiai a ridere. Hatcher mi aveva sgamato. «D’accordo, allora che mi dici di questo: quando lo prenderete, non cederà facilmente. È il classico tipo che cercherà di farsi ammazzare dalla polizia.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Il carcere sarebbe la sua morte.»
«Perché?»
«È ossessionato dal controllo. Gestisce ogni aspetto della vita delle sue vittime: come si vestono, cosa mangiano, tutto. Non sopporterebbe di perdere questo potere. La prospettiva di farsi ammazzare dalla polizia è allettante, perché sarebbe lui a scegliere l’ora e il luogo della sua morte. In questo modo manterrebbe il controllo.»
«Spero che ti sbagli.»
«Non mi sbaglio.»
Mentre guidava, ripensai ai particolari del rapimento di Patricia Maynard. Tanto per cambiare avrei voluto avere maggiori informazioni: in effetti, per quante ne avessi, non erano mai abbastanza.
In base ai rapporti della polizia, Martin Maynard aveva denunciato la scomparsa della moglie il 23 agosto, diventando così il principale sospettato. La maggior parte degli omicidi è commessa da persone che conoscono la vittima: il coniuge, un parente o un amico. In quella fase tuttavia non era ancora un caso di omicidio e la polizia stava vagliando tutte le possibilità.
Martin Maynard aveva avuto numerose relazioni e la coppia andava da un terapeuta nel disperato tentativo di salvare un matrimonio finito da tempo. Se a questo aggiungevi una cospicua assicurazione sulla vita, il movente pareva più che fondato. L’omicidio era stato dunque la logica conclusione.
Dopo quarantotto ore di interrogatorio il marito era stato rilasciato. La polizia lo aveva tenuto d’occhio nei mesi successivi, sempre per vagliare tutte le possibilità e coprirsi il culo. Avevano ricostruito gli ultimi movimenti di Patricia e stabilito che era scomparsa la sera del 22 agosto.
Martin aveva un alibi solido per quella sera, ovvero la sua segretaria, malgrado avesse giurato alla moglie che non si vedessero più. La sera in cui era scomparsa lui avrebbe dovuto trovarsi a Cardiff per lavoro, ma in realtà era rimasto a Londra con l’amante. I registri dell’albergo e alcuni testimoni oculari avevano confermato la sua versione.
Nei tre mesi e mezzo successivi non era emerso nulla. Niente richieste di riscatto, niente telefonate, niente cadaveri. Patricia Maynard era svanita dalla faccia della terra. Tutti ormai ritenevano che fosse morta, poi due notti fa era stata ritrovata in un parco di St Albans, una cittadina a nord di Londra famosa per la sua cattedrale. Era disorientata e incapace di comunicare, persino di rispondere alle domande più banali. Graham Johnson stava portando a spasso il cane e l’aveva vista vagare da sola. Aveva chiamato la polizia locale, che l’aveva prontamente identificata come Patricia Maynard. La donna era stata quindi trasferita al St Barts Hospital di Londra e Hatcher si era visto assegnare il caso.
Nei tre mesi e mezzo di prigionia Patricia era stata ripetutamente torturata. Aveva il corpo coperto di lividi e cicatrici, più o meno recenti. Il maniaco amava usare i coltelli e dall’esame tossicologico era emerso che le aveva somministrato dei farmaci per tenerla sveglia e aumentarne la sensibilità mentre infieriva su di lei. Le aveva mozzato tutte le dita, una alla volta, tranne l’anulare della mano sinistra, e cauterizzato con cura i moncherini. Stranamente non le aveva deturpato il viso e, elemento ancora più singolare, questo presentava tracce di trucco. Un altro particolare interessante era che, al di là delle lesioni, Patricia era in buone condizioni fisiche: aveva il peso giusto per la sua altezza e la sua costituzione, e non mostrava segni di disidratazione.
Raggiunto il bivio per St Albans, Hatcher girò a sinistra imboccando lo svincolo. Cinque minuti dopo stavamo attraversando St Michael, una zona di fatiscenti casette a schiera, villette da cartolina e proprietà più estese che dovevano costare una fortuna. Superammo quattro bar, troppi per il numero di case, tutte contraddistinte da una peculiarità demografica: quel luogo era ormai diventato il regno dei turisti.
Il freddo m’investì non appena scesi dall’auto. Fu come sbattere con la testa contro un muro di ghiaccio. Indossavo il giaccone pesante, foderato di pelle di pecora e impermeabilizzato contro l’umidità e il vento, ma era come se fossi in pantaloncini e maglietta. Mi accesi una sigaretta e Hatcher mi lanciò un’occhiataccia.
«Siamo all’aperto» dissi. «Non infrango nessuna legge.»
«Quella roba ti ucciderà.»
«Come molte altre. Domani potrei finire sotto un autobus.»
«O ammalarti di cancro ai polmoni e morire di una morte lenta, dolorosa e terribile.»
Gli rivolsi un sorriso a denti stretti. «Oppure no. Il mio bisnonno fumava due pacchetti al giorno ed è arrivato a centotré anni. Potrei aver preso da lui, no?»
La casa di Graham Johnson era di fronte al Six Bells. Come tutte le abitazioni della via, aveva la porta che dava direttamente sul marciapiede. Uno degli uomini di Hatcher lo aveva avvertito per telefono, perciò ci stava aspettando. La tenda del soggiorno si scostò quando ci avvicinammo alla casa e la porta si spalancò prima ancora che Hatcher suonasse il campanello. Johnson era in piedi sulla soglia con un Jack Russell che abbaiava e gli saltellava tutt’intorno come un matto. Era di altezza e di corporatura medie.
Dai rapporti della polizia sapevo che aveva settantacinque anni: con quel volto stanco, segnato dalle rughe e dalle preoccupazioni, li dimostrava tutti. I pochi capelli che gli restavano erano bianchi come i miei e aveva due grosse borse sotto gli occhi azzurri acquosi. Per la sua età, però, era agile e sciolto nonostante la temperatura gelida. Erano i benefici di fare un po’ d’esercizio anziché prendere vitamine e integratori per le articolazioni. Non sembrava un cultore delle pillole.
«Accomodatevi.»
Si scostò per farci passare in soggiorno. Il cane era fuori di sé, abbaiava e girava in cerchio inseguendosi la coda. «Buono, Barnaby!» esclamò l’anziano. L’animale smise all’istante e balzò, mogio, su una sedia. Spensi la sigaretta fumata a metà sul marciapiede ed entrai dopo Hatcher. Il cane seguì ogni nostro movimento con lo sguardo. Il piccolo fuoco che ardeva nel caminetto scaldava la stanza e la illuminava con il suo piacevole bagliore arancione.
«Posso offrirvi qualcosa?» domandò. «Un tè? Un caffè?»
«Un caffè sarebbe graditissimo» risposi. «Nero, con due cucchiaini di zucchero, grazie.»
Hatcher non prese niente e l’anziano sparì in cucina. Mi sistemai sul divano e osservai il soggiorno. Sembrava la sala di un museo. Avevo notato, quand’era venuto ad aprirci, che Johnson portava la fede e per me era evidente che quella stanza era stata arredata da una donna. Però non avevo visto la moglie. Ogni superficie era coperta di soprammobili, poltrone e divano erano abbelliti da cuscini floreali e alle finestre c’erano tendine con gli stessi motivi. Sulla mensola del caminetto spiccava, fiera, una vecchia foto del loro matrimonio e in ogni angolo c’erano fotografie di famiglia, raffiguranti una marea di figli e nipotini sorridenti. Dagli abiti e dalle acconciature si capiva quando fossero state scattate: le più recenti risalivano all’incirca a quattro anni prima, probabilmente all’epoca in cui sua moglie era morta.
Johnson tornò con due tazze fumanti di caffè, me ne porse una e si sedette sulla poltrona accanto al caminetto. Il caffè era forte, ad alto tasso di caffeina, proprio come piaceva a me.
«Ci può raccontare come ha trovato Patricia Maynard?» domandò Hatcher.
«Ah, si chiama così» osservò. «Da lunedì sera avrò parlato con una decina di poliziotti e nessuno si è preoccupato di dirmi il suo nome. Io d’altronde, non l’ho chiesto, quindi penso sia anche colpa mia. Però non mi sembrava giusto. Non sapere come si chiamasse.»
«Signor Johnson» incalzò Hatcher.
Il vecchio sussultò e tornò al presente. «Scusatemi.»
Hatcher gli fece cenno di non preoccuparsi. «Ci può raccontare che cos’è accaduto?»
«Avevo portato fuori Barnaby per la passeggiata serale. Saranno state più o meno le dieci. Lo porto fuori ogni sera alla stessa ora. A dire il vero, lo porto al parco due o tre volte al giorno: se non lo facessi, mi distruggerebbe la casa.»
«Parliamo del Verulamium Park, giusto?»
«Esatto, del Verulamium. Venendo qui, sarete probabilmente passati davanti all’ingresso. Ad ogni modo, arrivo in fondo al lago e la vedo. L’ho notata perché ho pensato che volesse entrare in acqua.» Tacque per sorseggiare il caffè. «Sentite, non voglio essere sgarbato, ma ho già detto tutto alla polizia. Ripetervelo non è un problema, ma temo di farvi perdere tempo.»
«Non ci fa perdere tempo.» Guardai il Jack Russell. «Vorrei fare un esperimento, se è d’accordo. Pensa che a Barnaby andrebbe di fare una passeggiata?» Udendo la parola «passeggiata» il cane drizzò le orecchie. Saltò giù dalla sedia abbaiando e prese a girare su se stesso come un animale da circo.
Johnson scoppiò a ridere. «Credo che lo possa prendere come un sì» rispose.