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Rachel spinse lo sportello e questo si mosse. Lo spinse di più fino a socchiuderlo e poi lo richiuse piano, aiutandosi con entrambe le mani per la paura che cigolasse. Si appoggiò al muro con il cuore che le batteva all’impazzata. Le sembrava di avere i polmoni troppo grandi per il suo petto e faceva fatica a respirare. Chiuse gli occhi per non vedere il buio e si impose la calma. Sussurrò quella parola più e più volte − calmati, calmati, calmati − e funzionò. Il battito rallentò e il respiro divenne più tranquillo.

Ripensò alla conversazione con Eve. Le aveva detto che Adam era fuori e sarebbe tornato di lì a poco, ma che cosa intendeva? Era un’espressione vaga. Sarebbe tornato dopo un’ora o dopo cinque minuti? Non ne aveva idea. Ma sapeva che, stando seduta lì a tormentarsi, perdeva tempo prezioso. Poteva essere l’occasione buona per scappare. La sua unica occasione. Al di là delle conseguenze, doveva tentare perché se non l’avesse fatto, quando Adam l’avesse di nuovo legata alla poltrona sarebbe stata tormentata dal rimpianto.

Aprì lo sportello, spalancandolo del tutto stavolta. Era consapevole che il tempo volava, ma si costrinse ad attendere per captare eventuali segni della presenza di Eve o di Adam. Tutto ciò che udì fu il gorgoglio del vecchio impianto di riscaldamento e i cigolii di assestamento del legno. In lontananza le sembrò di sentire l’ululare del vento, fuori.

Infilò la testa nell’apertura, poi una spalla e poi ancora l’altra. Si mise in diagonale per sfruttare al meglio lo spazio, ma l’apertura era ugualmente troppo stretta. Cercò di avanzare contorcendosi di qua e di là, ma invano. Le balenarono allora in mente le immagini della poltrona, del bastone e del coltello, una dopo l’altra. Bang, bang, bang. Adam l’avrebbe trovata bloccata lì, mezza dentro e mezza fuori, e l’avrebbe punita.

Non voleva pensare a quello che le avrebbe fatto perché era sicura che avrebbe escogitato qualcosa di ben più atroce delle volte precedenti. Si dimenò frenetica, ansiosa di liberarsi, graffiandosi le braccia e il petto, ma la paura ebbe il sopravvento sul dolore. D’un tratto si ritrovò dall’altra parte, stesa sul pavimento gelido. Respirava in modo rapido, accelerato, però il panico fu a poco a poco sostituito da un senso d’euforia.

Il corridoio era buio come la stanza, forse lievemente più caldo. Strisciò sul pavimento finché trovò un muro, a quel punto si alzò e lo seguì per tutta la sua lunghezza. I mattoni erano ruvidi al contatto. Si mosse veloce, osando, perché non sapeva quali ostacoli si sarebbe potuta trovare davanti.

A circa venti metri dalla porta il corridoio piegava a gomito verso sinistra. Rachel si fermò e, prima di continuare, si mise in ascolto per capire se Eve o Adam fossero nei paraggi. Le scale, a un paio di metri dall’angolo, erano fredde e grezze come il pavimento. La luce fioca che filtrava da sotto la porta era la prima luce naturale che vedeva da quel mercoledì pomeriggio di chissà quanto tempo prima.

S’impose di salire lentamente i gradini, ma non fu facile. Non vedeva l’ora di uscire. La libertà era là, in quella debole striscia di luce, nella lieve corrente d’aria che arrivava dalle scale. Ma se fosse caduta e si fosse spezzata il collo tutto ciò non avrebbe più avuto importanza, quindi avanzò cauta. Raggiunse la porta e prima ancora di provare a girare la maniglia, pensò che l’avrebbe trovata chiusa. La fortuna l’aveva aiutata fin lì, ma da un momento all’altro avrebbe potuto abbandonarla.

Girò la maniglia.

La porta era aperta.

Rachel entrò in uno stretto corridoio con il soffitto alto. La casa era grande e vecchia, proprio come se l’era immaginata: percepiva la stessa spaziosità che aveva sentito nel seminterrato, ma ancora più accentuata. Il tempo sembrava scorrere molto più lento lì che nel resto dell’universo, un po’ come in un museo. Da una finestra che non riusciva a vedere entrava una luce smorta e sotto i piedi nudi sentiva un pavimento di legno, freddo, lucido e logoro per l’età. Nell’aria si avvertiva un odore di lucido per mobili misto a un profumo d’arancia.

Rachel rimase ferma per cogliere eventuali segni di vita, poi s’incamminò verso la luce. Girò un angolo e si ritrovò in un grande atrio. Alla sua destra c’era un’ampia scalinata con una moquette rossa e i ritratti di alcuni antenati in cornici dorate. Vedendo il quadro appeso in cima alla prima rampa, ebbe un sussulto: la somiglianza con Adam era inquietante.

Di fronte a lei c’era l’ingresso.

Si fermò di nuovo e si mise in ascolto. Dov’era Eve? Di sopra? In una stanza al pianterreno? In cucina? Ovunque fosse, non faceva rumore.

Si era forse nascosta da qualche parte e la stava osservando?

Scacciò quel pensiero. La paranoia giocava brutti scherzi, le faceva vedere fantasmi dappertutto. La sua immaginazione veniva iperstimolata dalla paura e dall’ansia. Rachel si diresse veloce verso la porta. Aveva coperto metà distanza quando scorse qualcosa e si bloccò di colpo.

Sul tavolino antico di fronte alle scale c’era un telefono vecchio, di un color crema sbiadito, ma ancora funzionante. Aveva una pulsantiera e il ricevitore con il cavo a spirale. Il filo era inserito in una presa nel battiscopa.

Rachel si precipitò all’apparecchio e sollevò ricevitore. Il suo primo pensiero fu quello di chiamare la polizia, il secondo quello di chiamare suo padre. Si premette il ricevitore all’orecchio. Non c’era segnale, solo il rumore delle scariche statiche. Ma al di sopra di questo udì una voce flebile e gracchiante. La riconobbe subito. Si sentì gelare il sangue nelle vene e le gambe le cedettero. Si accasciò per terra con il ricevitore ancora premuto all’orecchio, mentre le parole che aveva appena udito le risuonavano in testa.

«Ciao Numero Cinque.»