TRANSIZIONE
DALLA CONOSCENZA DELL’UOMO A DIO

Il pregiudizio che induce in errore.

 

È deplorevole vedere che tutti gli uomini deliberano sui mezzi e non sul fine. Ciascuno pensa a come se la caverà nella sua condizione, ma quanto alla scelta della condizione, e della patria, è la sorte a darcela.

Fa pietà vedere tanti Turchi, eretici, infedeli, seguire l’andazzo dei loro padri, per la sola ragione che ciascuno ha il preconcetto che sia il migliore. Ed è così che ognuno si determina alla propria condizione, di fabbro, di soldato, ecc.

_______

È per questo che i selvaggi non sanno che farsene della Provenza [ 1 ]. [226]

 

*

 

Perché la mia conoscenza è limitata, e la mia statura, e la mia durata, fino a cent’anni piuttosto che a mille? Che ragione ha avuto la natura per darmela tale, e per scegliere questa via di mezzo invece che un’altra nell’infinito, quando non vi è ragione di sceglierne una piuttosto che un’altra, nessuna essendo più interessante dell’altra? [227]

 

*

 

(Poiché non si può essere universali sapendo tutto ciò che si può sapere di tutto, bisogna sapere un po’ di tutto. È molto più bello infatti sapere qualcosa di tutto che sapere tutto di una cosa. Questa forma di universalità è la più bella. Se si potessero avere entrambe, ancora meglio. Ma se c’è da scegliere, bisogna scegliere questa. E il mondo lo sente e lo fa, perché spesso il mondo è buon giudice.

_______

La mia fantasia mi fa odiare uno che gracchia e uno che soffia mangiando2 ].

_______

La fantasia ha un gran peso. Che vantaggio ci sarà nel seguire la propria inclinazione in quanto è naturale? No, ma nel resistervi.

Il miglior modo di dimostrare la vanità degli uomini è considerare la causa e gli effetti dell’amore, perché l’universo intero ne è trasformato. Il naso di Cleopatra). [228]

 

*

 

H. 5 [ 3 ]

 

Vedendo l’accecamento e la miseria dell’uomo, contemplando tutto l’universo muto e l’uomo nel buio, abbandonato a se stesso e come sperduto in questo canto dell’universo senza sapere chi ce l’ha messo, che cosa è venuto a farci, che sarà di lui quando morirà, incapace di qualsiasi conoscenza, io cado nello spavento, come un uomo che fosse stato trasportato nel sonno su un’isola deserta e terribile e che si svegliasse ignaro, e impotente a uscirne. E a questo punto mi meraviglio che non si cada nella disperazione per uno stato così miserabile. Vedo altre persone accanto a me di simile natura, domando loro se ne sanno più di me. Mi dicono di no. Al che, quei miserabili dispersi, girato attorno lo sguardo e scoperto qualche oggetto piacevole, si sono dedicati ad esso e ci si sono attaccati. Quanto a me, non ho potuto attaccarmi a niente, e considerando com’è più probabile che ci sia qualcos’altro oltre a ciò che vedo, ho indagato se quel Dio non avesse per caso lasciato qualche segno di sé.

Vedo molte religioni opposte, e dunque tutte false tranne una. Ciascuna vuol essere creduta sulla propria autorità e proferisce minacce contro gli increduli. Su queste basi, dunque, non le credo. Ognuno può dire la stessa cosa. Ognuno può dirsi profeta. Ma vedo la religione cristiana, in cui trovo delle profezie: questo, non tutti lo possono fare. [229]

 

*

 

H. Sproporzione dell’uomo

 

9 – (Ecco dove ci portano le conoscenze naturali. Se queste non sono vere, non c’è verità nell’uomo, e se lo sono, ne trae un grande motivo di umiliazione: in un modo o nell’altro è forzato ad abbassarsi.

E poiché non può sussistere senza crederci, auspico che prima di entrare in più profonde indagini sulla natura, la consideri una buona volta seriamente e con tutto agio, che consideri anche se stesso e giudichi se ha qualche proporzione con essa, paragonando tra loro questi due oggetti).

L’uomo contempli dunque la natura intera nella sua alta e piena maestà, distolga lo sguardo dalle cose basse che lo circondano, guardi quella splendida luce messa come una lampada eterna per illuminare l’universo; la terra gli appaia come un punto rispetto alla vasta orbita descritta da quell’astro, e rimanga attonito al pensiero che quella stessa vasta orbita non è se non una sottilissima punta rispetto a quella abbracciata dagli astri rutilanti nel firmamento. Ma se la nostra vista si ferma là, la nostra immaginazione vada oltre. Essa si stancherà di concepire prima che la natura si stanchi di produrre. Tutto il mondo visibile è appena un tratto impercettibile nell’ampio seno della natura, nessuna idea se ne avvicina. Abbiamo un bel gonfiare le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non generiamo se non atomi rispetto alla realtà delle cose. È una sfera infinita il cui centro è ovunque, la conferenza in nessun luogo. Infine, è la più grande fra le impronte sensibili dell’onnipotenza di Dio, che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero.

Tornato a sé, l’uomo consideri che cos’è a confronto con ciò che è, si veda come sperduto in questo canto appartato della natura, e che dall’esigua prigione ove si trova alloggiato, intendo dire l’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i regni, le città e se stesso.

Che cos’è un uomo, nell’infinito?

Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto stupefacente, cerchi le più delicate fra le cose che conosce; un acaro [ 4 ] gli offra nella piccolezza del suo corpo parti incomparabilmente più piccole, arti con giunture, vene negli arti, sangue nelle vene, umori nel sangue, gocce negli umori, vapori nelle gocce; suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca la sua capacità di concepire, e l’ultimo oggetto cui può giungere sia ora l’oggetto del nostro discorso. Penserà forse d’aver raggiunto l’estrema piccolezza della natura.

Voglio fargli vedere là dentro un abisso nuovo, voglio rappresentargli non solo l’universo visibile, ma l’immensità concepibile della natura nel giro di quello scorcio d’atomo. Scorga in esso un’infinità di universi, ciascuno dei quali ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nella stessa proporzione del mondo visibile, e nella terra degli animali, e infine degli acari, nei quali ritroverà ciò che ha trovato nei primi, e trovando ancora negli altri la stessa cosa senza fine e senza riposo, si perda in tali meraviglie altrettanto stupefacenti nella loro piccolezza quanto le altre per la loro estensione. Chi non si meraviglierà che il nostro corpo, or ora impercettibile nell’universo, a sua volta impercettible nel seno del tutto, sia adesso un colosso, un mondo o piuttosto un tutto rispetto all’irraggiungibile nulla?

Chi si considererà in questo modo si spaventerà di se stesso, e sapendosi sostenuto nella massa che la natura gli ha dato fra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà al cospetto delle sue meraviglie, e credo che, trasformata la sua curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a indagarle con presunzione. Perché insomma, che cos’è un uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, una via di mezzo tra nulla e tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il fine e il principio delle cose sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile (che potrà dunque concepire? è), parimenti incapace di vedere il niente da cui è tratto e l’infinito nel quale è sommerso.

Che potrà fare dunque, se non scorgere [qualche] apparenza delle cose mediane, disperando eternamente di conoscere il loro principio e il loro fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e svolte sino all’infinito. Chi potrà seguire questi stupefacenti processi? L’autore di tali meraviglie le comprende. Nessun altro può farlo.

Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini hanno intrapreso temerariamente lo studio della natura, come se avessero qualche proporzione con essa.

È strano che abbiano voluto comprendere i princìpi delle cose, e per quella via arrivare fino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto. Perché di sicuro non si può concepire un tale disegno senza una presunzione o senza una capacità infinita, come la natura.

Quando si è istruiti, si capisce che siccome la natura ha inciso in tutte le cose la propria immagine e quella del suo creatore, quasi tutte rispecchiano la sua duplice infinità: per questo vediamo che tutte le scienze sono infinite nell’estensione delle loro ricerche. Chi dubita infatti che la geometria, per fare un esempio, abbia un’infinità d’infiniti di proposizioni da esporre? Altrettanto infinite esse sono nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro princìpi. Chi non vede infatti che gli ultimi a essere proposti non si sostengono da soli, ma sono appoggiati su altri che, appoggiandosi a loro volta su altri, mai ne ammettono un ultimo?

Ma noi facciamo con quelli che alla ragione sembrano ultimi come facciamo con le cose materiali, in cui chiamiamo indivisibile un punto oltre il quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, per quanto esso sia per sua natura divisibile, e infinitamente.

Di questi due infiniti delle scienze, quello di grandezza è ben più sensibile, tant’è vero che è accaduto a poche persone di pretendere di conoscere tutto. «Parlerò di tutto», diceva Democrito [ 5 ]. (Ma oltre al fatto che conta poco parlarne semplicemente, senza dimostrazione e senza conoscenza, per di più è impossibile farlo: la moltitudine infinita delle cose è per noi così nascosta che tutto quanto possiamo esprimere in parole o in pensieri è appena un tratto invisibile. Donde appare quanto sia sciocco, vano e ignorante il titolo di certi libri, De omni scibili [ 6 ]).

(Balza agli occhi che la sola aritmetica offre proprietà innumerevoli, e ogni scienza lo stesso).

Ma l’infinito nella piccolezza è ben meno visibile. I filosofi hanno avuto ben maggiori pretese di arrivarci, ed è là che tutti hanno inciampato. È così che sono venuti fuori quei titoli così comuni: Dei princìpi delle cose, Dei princìpi della filosofia7 ], e altri simili, apparentemente meno, in realtà altrettanto pomposi quanto questo che cava gli occhi: De omni scibili.

Ci crediamo naturalmente ben più capaci di arrivare al centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza, e l’estensione visibile del mondo visibilmente ci supera. Ma poiché siamo noi a superare le piccole cose, ci crediamo più capaci di possederle, e invece non occorre meno capacità per andare fino al nulla che fino al tutto. Nell’uno e nell’altro caso occorre una capacità infinita. E mi sembra che chi avesse compreso gli ultimi princìpi delle cose potrebbe anche arrivare fino a conoscere l’infinito. L’uno dipende dall’altro, l’uno conduce all’altro. Questi estremi si toccano e si ricongiungono a forza di essersi allontanati, e si ritrovano in Dio, e in Dio solamente.

Conosciamo dunque la nostra portata: siamo qualcosa e non siamo tutto. La misura di essere che abbiamo ci sottrae la conoscenza dei primi princìpi, che nascono dal nulla. E la nostra scarsa misura di essere ci nasconde la vista dell’infinito.

La nostra intelligenza occupa nell’ordine delle cose intellegibili il medesimo rango che il nostro corpo occupa nell’estensione della natura.

Limitati nell’anima e nel corpo, questo stato mediano tra due estremi si ritrova in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono niente di estremo. Troppo rumore ci assorda, troppa luce ci abbaglia, troppa distanza e troppa prossimità impediscono la vista. Troppa lunghezza e troppa brevità di discorso lo rende oscuro, troppa verità ci lascia attoniti. Conosco qualcuno che non può capire che zero meno quattro fa zero. I primi princìpi hanno troppa evidenza per noi. Troppo piacere crea disagio, troppe consonanze dispiacciono in musica e troppi benefici irritano. Vogliamo avere di che strapagare il debito. Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur8 ]. Non sentiamo né il caldo estremo, né l’estremo freddo, le qualità eccessive ci sono nemiche e non sensibili, non le sentiamo più, le patiamo. Troppa giovinezza e troppa vecchiaia ostacolano la mente, così troppa e troppo poca istruzione. Insomma, le cose estreme sono per noi come se non fossero, e noi non siamo affatto nei loro riguardi: esse ci sfuggono, o noi a loro.

Ecco il nostro vero stato. È quanto ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Voghiamo su un mezzo vasto, sempre incerti e fluttuanti, sospinti da un capo all’altro. Qualunque termine al quale pensiamo di attaccarci solidamente, vacilla e ci abbandona. E se lo seguiamo, si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge di una fuga eterna. Niente si ferma per noi: è lo stato che ci è naturale e tuttavia il più opposto alla nostra inclinazione. Ardiamo dal desiderio di trovare una posizione ferma, e un’ultima base stabile per edificarvi una torre che s’innalzi all’infinito, ma ogni nostro fondamento crolla e la terra si spalanca fino agli abissi [ 9 ].

Non cerchiamo dunque alcuna sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dall’incostanza delle apparenze, niente può fissare il finito tra i due infiniti che lo rinchiudono e fuggono da lui.

Una volta capito questo, credo che ci terremo in riposo, ciascuno nello stato in cui la natura lo ha posto.

Poiché quel luogo mediano che ci è capitato in sorte è sempre distante dagli estremi, che importa se un altro ha un po’ più d’intelligenza delle cose? Se ce l’ha, e se le vede un po’ più dall’alto, non è sempre infinitamente lontano dal termine? E la durata della nostra vita, se anche dura dieci anni di più, non è ugualmente infima rispetto all’eternità?

In vista di quegli infiniti, tutti i finiti sono uguali, e non vedo perché fermare l’immaginazione sull’uno piuttosto che sull’altro. Il solo confronto che stabiliamo tra noi e il finito ci affligge.

Se l’uomo studiasse in primo luogo se stesso, vedrebbe fino a che punto è incapace di andare oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Ma aspirerà forse a conoscere almeno le parti con le quali ha proporzione. Ma le parti del mondo hanno tutte un tale rapporto e concatenamento l’una con l’altra che credo impossibile conoscere l’una senza l’altra e senza il tutto.

L’uomo, per esempio, è in relazione con tutto ciò che conosce: ha bisogno di luogo che lo contenga, di tempo per durare, di movimento per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di alimenti per nutrirsi, di aria per respirare. Vede la luce, sente i corpi, insomma tutto rientra nell’ambito della sua parentela. Bisogna dunque, per conoscere l’uomo, sapere come mai egli ha bisogno d’aria per sussistere, e per conoscere l’aria, bisogna sapere come mai ha questo rapporto con la vita dell’uomo, ecc.

La fiamma non sussiste senza l’aria. Dunque per conoscere l’una bisogna conoscere l’altra.

Se tutte queste cose sono causate e causanti, aiutate e adiuvanti, in modo mediato e immediato, e se tutte s’intrattengono grazie a un legame naturale e insensibile che collega le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come conoscere il tutto senza conoscere singolarmente le parti.

(L’eternità delle cose in se stesse o in Dio deve, una volta ancora, lasciare attonita la nostra piccola durata.

L’immobilità fissa e costante della natura, in confronto al cambiamento continuo che avviene in noi, deve produrre lo stesso effetto).

E ciò che completa la nostra impotenza a conoscere le cose, è che esse sono semplici in se stesse, mentre noi siamo composti di due opposte nature e di generi diversi, anima e corpo. Giacché è impossibile che la parte ragionante in noi non sia spirituale. E se qualcuno pretendesse che fossimo semplicemente corporei, questo ci escluderebbe ancora di più dalla conoscenza delle cose: infatti niente è così inconcepibile come l’affermazione che la materia conosce se stessa. Ci è impossibile conoscere come essa potrebbe conoscersi.

Dunque, se [siamo] semplici, materiali, non possiamo conoscere proprio niente. E se siamo composti di spirito e di materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici (poiché la nostra sostanza, che agisce in tale conoscenza, è in parte spirituale. E come potremmo conoscere nettamente le sostanze spirituali, avendo un corpo che ci appesantisce e ci abbassa verso terra?10 ]), spirituali o corporee.

Ne deriva che quasi tutti i filosofi confondono le idee delle cose e parlano spiritualmente delle cose corporee e corporalmente delle cose spirituali. Perché dicono arditamente che i corpi tendono al basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che hanno inclinazioni, simpatie, antipatie, cose tutte che appartengono solo agli spiriti. E parlando degli spiriti, li considerano come se fossero in un luogo, e attribuiscono loro il movimento da un posto all’altro, cose che appartengono solo ai corpi.

Invece di accogliere le idee di queste cose pure, le coloriamo delle nostre qualità, e impregnamo del nostro essere composto tutte le cose semplici che contempliamo.

Chi non crederebbe, a vederci comporre tutto di corpo e spirito, che codesta mescolanza ci sia ben comprensibile? E invece è la cosa che si capisce di meno. L’uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della natura, perché non può concepire che cosa sia corpo, e ancora meno che cosa sia spirito, e meno che meno come un corpo possa essere unito a uno spirito. È questo il colmo delle sue difficoltà, eppure è il suo stesso essere. Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est11 ].

(Ecco una parte delle cause che rendono l’uomo così inetto a conoscere la natura. Essa è in due modi infinita, lui è finito e limitato. Essa dura e si conserva perpetuamente nell’essere, lui passa ed è mortale. Le cose in particolare si corrompono e cambiano di momento in momento, lui non le vede che di passaggio. Esse hanno il loro principio e il loro termine, lui non concepisce né l’uno né l’altro. Esse sono semplici, e lui è composto di due diverse nature).

Infine, per portare fino in fondo la dimostrazione della nostra debolezza, terminerò con queste due considerazioni. [230]

 

*

 

L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura, ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua bastano ad ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, ancora l’uomo sarebbe più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa che muore e conosce il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla. [231]

 

*

 

Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È su questo che bisogna far leva, e non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare.

Lavoriamo dunque a pensare bene. Ecco il principio della morale. [232]

 

*

 

L’eterno silenzio di quegli spazi infiniti mi sgomenta. [233]

 

*

 

Consolatevi, non è da voi stessi che dovete aspettarvelo, ma al contrario, quando non vi aspettate niente da voi, è allora che ve lo dovete aspettare. [234]

 


 

1 ] Essais, I, 23, pp. 115-116: «È perché interviene la consuetudine che ognuno è contento del luogo in cui la natura lo ha piantato: i selvaggi della Scozia non sanno che farsene della Touraine».

2 ] Il medico A. Paré chiama coasseur il malato che ha la gola o il naso ostruiti (in modo che respira producendo un rumore sgradevole). Fantasia: immaginazione.

3 ] Vestigia di un testo sull’Uomo, che si ritrovano in questo dossier e forse nell’ultimo frammento di «Miseria».

4 ] Ciron: aracnide minuscola, che serviva di esempio per l’estrema piccolezza. I primi microscopi erano apparsi nel 1618.

5 ] Essais, II, 12, p. 489: «Ugualmente impudente è quella promessa di Democrito: “Parlerò di tutto”».

6 ] Frammento di un titolo dato da Pico della Mirandola a una delle novecento tesi che si proponeva di sostenere a Roma nel 1486.

7 ] Il trattato Del principio delle cose è attribuito a Duns Scoto (fine del XIII secolo); il secondo è di Descartes (1644).

8 ] La citazione di Tacito (Annali, 4) proviene dagli Essais (III, 8, p. 940): «Il beneficio è gradito nella misura in cui lo si può riconoscere: quando la oltrepassa di gran lunga, si ripaga con l’odio invece che con la gratitudine».

9 ] La volontà di elevare costruzioni, ossia di opporre l’altezza e la durezza della pietra al flusso di ciò che perisce, appare a Pascal come un’ossessione generale degli uomini. Qui pensa al racconto della torre di Babele (Genesi 11). Egli stesso è abitato a un tempo dall’ossessione della caduta (vertigine, abisso, precipizio, baratro...) e da un’intensa «fantasticheria della torre»: al termine di una lenta elevazione (Sur la conversion du pécheur), liberato dai lacci e dalla pesantezza, l’essere umano gode di ciò che Bachelard chiama «la contemplazione monarchica del mondo».

10 ] Versetto biblico caro a sant’Agostino: «Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum multa cogitantem» (Sapienza 9, 15). Tutta questa riflessione sull’uso delle metafore è ispirata da sant’Agostino, attento al modo figurato in cui gli uomini parlano di Dio (La vera religione, 33, ecc.), e dalle polemiche sull’«orrore del vuoto».

11 ] Essais, II, 12, pp. 538-539: «Questa gente [...] che sa tutto [...] non ha qualche volta sondato, nei suoi libri, le difficoltà che s’incontrano a conoscere il proprio essere [...] . Ma come un’impressione spirituale faccia una tale irruzione in un soggetto massiccio e solido, e la natura del legame e della cucitura di queste mirabili molle, mai uomo l’ha saputo [...] . S. Agostino: Modo, quo corporibus adhaerent spiritus, omnino mirus est, nec comprehendi ab homine potest: et hoc ipse homo est». Montaigne aveva già alleggerito il testo agostiniano (La Città di Dio, XI, 10). Pascal non ha avuto che da proseguire: «Il mezzo col quale gli spiriti sono congiunti ai corpi [...] non può essere compreso dall’uomo; tuttavia questo è l’uomo».

Pensieri [Nuova edizione a cura di Philippe Sellier secondo l’“ordine” pascaliano]
titlepage.xhtml
part0000.html
part0001_split_000.html
part0001_split_001.html
part0002.html
part0003_split_000.html
part0003_split_001.html
part0003_split_002.html
part0003_split_003.html
part0003_split_004.html
part0004.html
part0005.html
part0006_split_000.html
part0006_split_001.html
part0006_split_002.html
part0007.html
part0008.html
part0009.html
part0010.html
part0011.html
part0012.html
part0013.html
part0014.html
part0015.html
part0016.html
part0017.html
part0018.html
part0019.html
part0020.html
part0021.html
part0022.html
part0023.html
part0024.html
part0025.html
part0026.html
part0027.html
part0028.html
part0029.html
part0030.html
part0031.html
part0032.html
part0033.html
part0034.html
part0035.html
part0036.html
part0037.html
part0038.html
part0039.html
part0040.html
part0041.html
part0042.html
part0043.html
part0044.html
part0045.html
part0046.html
part0047.html
part0048.html
part0049.html
part0050.html
part0051.html
part0052.html
part0053.html
part0054.html
part0055.html
part0056.html
part0057.html
part0058.html
part0059.html
part0060.html
part0061.html
part0062.html
part0063.html
part0064.html
part0065.html
part0066.html
part0067.html
part0068.html
part0069.html
part0070.html
part0071.html
part0072.html
part0073.html
part0074.html
part0075.html
part0076.html
part0077.html
part0078.html
part0079.html
part0080.html
part0081.html
part0082.html
part0083.html
part0084.html
part0085.html
part0086.html
part0087.html
part0088.html
part0089.html
part0090.html
part0091.html
part0092.html
part0093.html
part0094.html
part0095.html
part0096.html
part0097.html