LETTERA PER RIMUOVERE GLI
OSTACOLI
o DISCORSO DELLA MACCHINA [ 1 ]
Infinito. Nulla.
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La nostra anima è gettata nel corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Ragiona su questo e chiama ciò natura, necessità, ed è tutto ciò a cui crede.
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L’unità aggiunta all’infinito non l’aumenta in niente, non più che un piede aggiunto a una misura infinita. Il finito si annienta in presenza dell’infinito e diviene un puro nulla. Così la nostra mente davanti a Dio, così la nostra giustizia davanti alla giustizia divina. Tra la nostra giustizia e quella di Dio non vi è sproporzione così grande come tra l’unità e l’infinito.
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Bisogna che la giustizia di Dio sia immensa come la sua misericordia. Ora, la giustizia nei riguardi dei reprobi è meno immensa e deve urtare di meno che la misericordia verso gli eletti.
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Conosciamo che c’è un infinito, e ignoriamo la sua natura; come sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, dunque è vero che c’è un infinito nel numero, ma non sappiamo che cos’è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, poiché aggiungendo l’unità non cambia di natura: eppure è un numero e ogni numero è pari o dispari (veramente questo lo si intende di ogni numero finito).
Così si può ben conoscere che c’è un Dio senza sapere ciò che è.
Non c’è una verità sostanziale, dato che si vedono tante cose vere che non sono la verità stessa?
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Conosciamo dunque l’esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come esso è.
Conosciamo l’esistenza dell’infinito, e ignoriamo la sua natura, perché ha estensione come noi, ma non ha limiti come noi.
Ma non conosciamo né l’esistenza né la natura di Dio, perché non ha estensione né limiti.
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Ma mediante la fede conosciamo la sua esistenza. Mediante la gloria conosceremo la sua natura.
Ora, ho già dimostrato che si può ben conoscere l’esistenza di una cosa senza conoscere la sua natura.
Parliamo adesso secondo i lumi naturali.
Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile, poiché, non avendo né parti né limiti, non ha alcun rapporto con noi. Siamo dunque incapaci di conoscere ciò che è, né se è. Stando così le cose, chi oserà cimentarsi a risolvere questa questione? Non certo noi, che non abbiamo alcun rapporto con lui.
Chi biasimerà dunque i cristiani di non poter dare ragione della loro credenza, proprio loro che professano una religione di cui non possono dare ragione? Dichiarano, esponendola al mondo, che è una stoltezza, stultitiam [ 2 ]: e poi vi lamentate se non la provano! Se la provassero, non manterrebbero la parola. È mancando di prova che non mancano di senso. – Sì, ma sebbene questo scagioni chi l’offre come tale, e lo sollevi dal biasimo di produrla senza ragione, non per questo è scagionato chi la accoglie.
Esaminiamo dunque questo punto e diciamo: Dio è, o non è. Ma da quale parte propenderemo? La ragione qui non può determinare nulla. Ci separa un caos infinito. All’estremo di questa distanza infinita si gioca un gioco, dove capiterà testa o croce: che cosa scommetterai? in base alla ragione non puoi scegliere né l’uno né l’altro, in base alla ragione non puoi difendere nessuno dei due partiti.
Non biasimare dunque d’aver scelto il falso quelli che hanno scelto, poiché non ne sai nulla! «No, ma li biasimerò, non di aver fatto quella scelta, ma di aver fatto una scelta. Poiché anche se chi prende croce e l’altro sono parimenti in difetto, tutti e due sono in difetto. Il giusto è non scommettere».
Sì, ma bisogna scommettere. Non dipende dalla volontà, sei imbarcato. Allora che cosa prenderai? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo dov’è che hai meno interesse. Hai due cose da perdere: il vero e il bene, e due cose da impegnare: la tua ragione e la tua volontà, la tua conoscenza e la tua beatitudine; e la tua natura ha due cose da fuggire: l’errore e l’infelicità. Poiché occorre necessariamente scegliere, la tua ragione non è più lesa scegliendo l’uno che l’altro. Ecco un punto chiarito. Ma la tua beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, se si scommette croce che Dio è. Consideriamo questi due casi: se vinci, vinci tutto; se perdi, non perdi nulla. Scommetti dunque che è, senza esitare! «È mirabile. Sì, bisogna scommettere. Ma forse scommetto troppo». Vediamo. Poiché vi sono pari probabilità di guadagno e di perdita, se tu avessi da guadagnare solo due vite contro una, potresti ancora scommettere. Ma se avessi da guadagnarne tre, occorrerebbe giocare (poiché non puoi fare a meno di giocare), e saresti imprudente, dato che sei forzato a giocare, se non azzardassi la tua vita per guadagnarne tre, in un gioco in cui vi è pari probabilità di perdita e di guadagno. Ma c’è un’eternità di vita e di felicità! E se è così, quand’anche vi fossero infinite probabilità di cui una sola a tua favore, avresti ancora ragione a puntare uno per avere due, e agiresti contro il buon senso – costretto come sei a giocare – rifiutandoti di giocare una vita contro tre in un gioco ove tra infinite probabilità ce n’è una per te, se il guadagno fosse un’infinità di vita infinitamente felice. Ma qui c’è un’infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di guadagno contro un numero finito di probabilità di perdita, e la posta che metti in gioco è finita. Questo taglia corto a ogni indecisione: dovunque vi sia l’infinito e non vi siano infinite probabilità di perdita contro quella del guadagno, non c’è da tergiversare, bisogna dare tutto. E così, una volta costretti a giocare, bisogna proprio voler agire contro la ragione, per conservare la vita anziché azzardarla in nome di un guadagno infinito altrettanto imminente quanto la perdita del nulla.
Infatti non serve a niente dire che il guadagno è incerto, e il rischio è sicuro, e l’infinita distanza che sussiste fra la CERTEZZA del rischio e l’INCERTEZZA del futuro guadagno uguaglia il bene finito che si rischia all’infinito che è incerto. Non è così. Qualunque giocatore rischia con certezza per guadagnare con incertezza: e tuttavia rischia in modo certo il finito per guadagnare in modo incerto il finito, senza peccare contro la ragione. La distanza non è infinita tra la certezza del rischio e l’incertezza del guadagno: questo è falso. C’è, a dire il vero, infinito tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l’incertezza di guadagnare è proporzionata alla certezza del rischio, secondo la proporzione delle probabilità di guadagno e di perdita. E ne consegue che, se vi sono altrettante probabilità da una parte e dall’altra, la partita è da giocare pari a pari; e allora la certezza del rischio è pari all’incertezza del guadagno, lungi dall’esserne infinitamente distante. E così la nostra proposta è di una forza infinita, quando, in un gioco ove le probabilità di guadagno e di perdita sono pari, c’è il finito da rischiare, e l’infinito da guadagnare.
Questo argomento è probante, e se gli uomini sono capaci di qualche verità, eccone una.
«Lo confesso, lo riconosco, però... Non c’è un modo per vedere il rovescio del gioco?». Sì, la Scrittura, e il resto, ecc. «Sì, ma ho le mani legate e la bocca muta. Mi si obbliga a scommettere, e non sono in libertà, non mi si tolgono i lacci. E sono fatto in modo che non posso credere. Che vuoi dunque che io faccia?». È vero. Ma sappi almeno che la tua impotenza a credere, poiché la ragione ti ci porta e tuttavia non ne sei capace, (viene) dalle tue passioni. Lavora dunque, non a convincerti cercando nuove prove di Dio, ma diminuendo le tue passioni. Vuoi andare verso la fede, e non ne conosci la strada? Vuoi guarirti dall’infedeltà, e non ne conosci i rimedi? Impara da quelli che sono stati impediti come te e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorresti seguire, guarite da un male da cui tu vuoi guarire. Segui il modo in cui loro hanno cominciato: facendo tutto come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire delle messe, ecc. Questo ti farà credere, addirittura naturalmente, macchinalmente [ 3 ]. «Ma è proprio quello che temo». E perché? che cos’hai da perdere? Ma, per mostrarti che la strada è questa, è così che diminuiscono le passioni, che sono i tuoi grandi ostacoli, ecc.
«Questo discorso mi entusiasma, m’incanta», ecc. Se questo discorso ti piace e ti sembra forte, sappi che è fatto da un uomo che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell’Essere infinito e indivisibile, al quale sottomette tutto il proprio, di sottomettere a sé anche il tuo, per il tuo stesso bene e per la sua gloria: e così la forza si accorda con questo abbassamento.
Fine di questo discorso.
Ora, che male ti può accadere se prendi questo partito? Sarai fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, vero [ 4 ]. A dir la verità, non vivrai nei piaceri infetti, nella gloria, nelle delizie. Ma non ne avrai forse altri?
Ti dico che ci guadagnerai in questa vita, e a ogni passo che farai in questo cammino, vedrai tanta certezza di guadagno, e tanta nullità in quello che rischi, che alla fine ti renderai conto di aver scommesso su una cosa certa, infinita, per la quale non hai dato nulla.
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Siamo ben obbligati a quanti ci avvertono dei nostri difetti, perché ci mortificano: ci fanno scoprire che siamo stati oggetto di disprezzo, né impediscono che lo siamo ancora in futuro, poiché abbiamo tanti altri difetti che lo meritano. Preparano l’esercizio della correzione, e l’emendamento dal difetto.
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La consuetudine è la nostra natura. Chi si abitua alla fede, crede, e non può più non temere l’inferno, e non crede ad altro. Chi si abitua a credere che il re è terribile, ecc. Chi può dunque dubitare che la nostra anima, avvezza a vedere numero, spazio, movimento, creda a questo e a nient’altro che questo?
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Credi impossibile che Dio sia infinito, indivisibile? «Sì». Ti voglio dunque far vedere (una immagine di Dio nella sua immensità) una cosa infinita e indivisibile: è un punto che si muove ovunque a una rapidità infinita.
Esso è dappertutto uno, ed è tutto intero in ogni luogo.
Questo effetto di natura, che prima ti sembrava impossibile, ti faccia conoscere che possono essercene altri a te ancora ignoti. Da ciò che hai appreso non dedurre che non ti resta niente da sapere, ma che ti restano da sapere infinite cose.
È falso che noi siamo degni di essere amati dagli altri. È ingiusto volerlo. Se nascessimo ragionevoli, e indifferenti, e consapevoli di noi e degli altri, non daremmo questa piega alla nostra volontà. Ma nasciamo con essa. Nasciamo dunque ingiusti. Giacché tutto tende a sé: questo è contro ogni ordine. Bisogna tendere al generale, e l’inclinazione verso di sé è l’inizio di ogni disordine: in guerra, in politica, nell’economia, nel corpo del singolo uomo.
La volontà è dunque depravata. Se le membra delle comunità naturali e civili tendono al bene del corpo, le comunità stesse devono tendere a un altro corpo più generale di cui sono membra. Bisogna dunque tendere al generale. Nasciamo dunque ingiusti e depravati.
Nessuna religione se non la nostra ha insegnato che l’uomo nasce in peccato. Nessuna scuola di filosofi lo ha detto. Nessuna dunque ha detto il vero.
Nessuna dottrina né religione è stata sempre sulla terra, se non la religione cristiana.
Solo la religione cristiana rende l’uomo a un tempo degno di amore e felice. Nell’ideale mondano [ 5 ] non si può essere insieme degni di amore e felici.
È il cuore che sente Dio, e non la ragione: ecco che cos’è la fede. Dio sensibile al cuore, non alla ragione.
Il cuore ha le sue ragioni, ignote alla ragione: lo costatiamo in mille cose.
Intendo dire che il cuore ama l’essere universale naturalmente, e se stesso naturalmente, secondo la direzione che prende. E s’indurisce contro l’uno o l’altro, a sua scelta. Hai respinto l’uno e tenuto l’altro: è per ragione che ami te stesso?
L’unica scienza che sia contro il senso comune e la natura degli uomini, è la sola che sia sempre sussistita in mezzo agli uomini. [680]
[ 1 ] Nel dossier «Ordine» della sua apologia, Pascal ha indicato: «Ordine. Dopo la lettera che si deve cercare Dio, fare la lettera sul rimuovere gli ostacoli, che è il discorso della macchina...». Questo celebre testo è conosciuto soprattutto col titolo «La scommessa», che non è di Pascal. L’apologista parte da due assi del pensiero agostiniano: l’importanza dell’incerto nell’esistenza umana; il peso delle consuetudini di vita, delle cattive abitudini (noncuranza, passioni varie...). Per infrangere la violenza ipocrita delle abitudini, sant’Agostino ammetteva il ricorso alla violenza fisica (Lettera a Vincenzo). Pascal si rifiuta a questo; vuole rivelare all’incredulo tutto un «pezzo» del suo essere, «la macchina» che funziona sordamente in lui e rischia di soffocare le semenze cristiane che avrebbero potuto germogliare. La demolizione delle abitudini pagane si compirà per iniziativa stessa dell’incredulo, reso consapevole delle ingenuità del razionalismo (attribuirsi una mente libera, sovrana) e desideroso di darsi delle opportunità di accedere all’universo evangelico. Gli sviluppi matematici della «scommessa» suppongono, per essere validi, che l’interlocutore intraveda la nullità del tipo di vita al quale gli viene proposto di rinunciare. Scommettendo per Dio, l’incredulo evidentemente non accede alla fede, puro dono di Dio, ma si risolve a «rimuovere gli ostacoli».
[ 2 ] Prima lettera ai Corinzi 1, 18.
[ 3 ] Abbiamo tradotto con un avverbio («macchinalmente») un celebre e controverso verbo: il testo di Pascal ha «et vous abêtira», letteralmente «vi istupidirà» o «vi abbrutirà» [N.d.T.] . Questa parola, che ha urtato, non fa che rimandare alla teoria della «macchina». L’uomo è, in parte, meccanismo; e questo «pezzo» del suo essere è oggetto di allenamento. La superiorità dell’intelligenza è nel saperlo e nel tenerne conto: essa può non sfuggire alle abitudini, ma scegliere le sue abitudini.
[ 4 ] Un comportamento esterno il più possibile vicino a quello che produce la vera carità piega la «macchina» verso il cristianesimo. Da ciò, la stima relativa di Pascal per l’ideale della honnêteté, di cui il suo amico Méré ha potuto dire: «La devozione e l’honnêteté percorrono quasi le stesse vie [...] in modo che l’honnêteté non è inutile per la salvezza» (De la vraie honnêteté, 1668).
[ 5 ] Ancora una volta il testo francese ha honnêteté [N.d.T.] .