4. I FRAMMENTI: SEMENZE E ROVINE
Verso la metà del XX secolo la filologia pascaliana ha conosciuto una svolta decisiva. Lavorando non sul manoscritto originale dei Pensieri, ma sulle due copie che giacciono alla Nazionale di Parigi, alcuni studiosi – dapprima Zacharie Tourneur [ 27 ], poi Louis Lafuma, autore di un’edizione della cosiddetta «Prima Copia» [ 28 ], quindi Philippe Sellier, editore della cosiddetta «Seconda Copia» [ 29 ] – sono giunti a conclusioni tali da rivoluzionare l’approccio al testo pascaliano. Quelle due copie eseguite da una mano limpida e paziente non sono solo un inestimabile aiuto per decifrare il manoscritto di Pascal, qualche volta incomprensibile a causa di cancellature, riscritture, margini fittamente riempiti (si prenda ad esempio, nell’originale di Pascal, il frammento della scommessa: grandi fogli scritti in tutti i sensi, illeggibili e belli più di un calligramma, con pensieri tra i più noti di Pascal che sembrano là per caso, dimenticati in un margine: «Il cuore ha le sue ragioni, ignote alla ragione», p. 61). Le due copie risalgono ai primissimi tempi dopo la morte di Pascal; rappresentano dunque l’immagine del manoscritto nello stato in cui Pascal lo aveva lasciato, prima delle manomissioni che lo hanno reso in seguito irriconoscibile. Ancor più che un ausilio alla lettura del testo, le due copie sono la testimonianza di un ordine, o di un disordine, primitivo, costituito dallo stesso Pascal, e dello stato di avanzamento dell’opera al momento in cui i lavori si sono interrotti.
Nel cuore del XX secolo, nel clima di una matura e quasi autunnale sensibilità filologica, una simile scoperta ha avuto per effetto di rendere inautentico qualunque diverso tentativo di edizione dei Pensieri. Il criterio già applicato da qualche editore ottocentesco – riprodurre i Pensieri nello stato in cui sono, prestando fede al manoscritto, con la grande svista di ritenere che lo stato del manoscritto originale rappresentasse l’ordine di Pascal – si è imposto impetuosamente e con un’autorevolezza nuova. Questa volta sì, era possibile, nello specchio delle due copie, indagare il segreto e talora l’enigma della disposizione che Pascal aveva dato ai suoi frammenti, raggruppandone una parte in filze, costituendo dei dossier, accantonando delle riserve, procedendo in alcuni casi alla stesura di testi più sviluppati. Ecco che interveniva una componente nuova nella lettura critica dei Pensieri: il tempo. Quando Pascal aveva abbozzato quel suo ordine provvisorio? A quando risalgono i materiali così disposti? C’è un movimento cronologico da riconoscere sotto l’incompiuta sistemazione? Quale, infine, il rapporto tra l’ordine provvisorio e il “piano” definitivo dell’opera?
Per qualcuno la questione del tempo si è fatta rapidamente affascinante e divoratrice. Uno studioso, Pol Ernst, dedicando anni della sua vita all’esame materiale dei manoscritti [ 30 ], si è prefisso – riuscendovi in parte – di ricostituire addirittura l’ordine genetico dei Pensieri: l’ordine che è prima di ogni altro ordine, il movimento creativo per cui Pascal buttava giù i suoi pensieri su grandi fogli uniti, prima di dividerli, spostarli, riutilizzarli, nel misterioso gioco combinatorio che è alla base della formazione del testo che conosciamo.
Intorno al libro di Pascal il clima della lettura è cambiato profondamente. Scomparsa la comodità di leggere i frammenti come raccolta di pensieri, nella negligenza tutta calcolata e armoniosa delle forme brevi dei moralisti. Tramontato il coraggio di portare a termine il “piano” dell’apologia, evocando al meglio, con un’illusione di continuità, il libro che sarebbe potuto essere. Di colpo ci si è trovati in un paesaggio impervio e strano, e al tempo stesso vicini come non mai alla verità di Pascal. È come se la filologia dura e pura degli anni ’50 e ’60 avesse portato il lettore a toccare con mano il fatto che il capolavoro di Pascal non esiste se non allo stato di avantesto e come insieme di frammenti: semenze e rovine. Questa semplice verità filologica ha dischiuso, come un volo di uccelli selvaggi, problemi filosofici prima sopiti.
Perché Pascal non ha portato a termine la sua opera? Bisogna imputare solo alla malattia l’incompletezza del testo? Fino a che punto lo stato frammentario dei Pensieri è una circostanza incidentale, legata a vicende biografiche; fino a che punto è una condizione necessaria, legata alla natura del progetto, all’oggetto trattato, alla scrittura prescelta? Quale Dio si nasconde e si rivela nel chiaroscuro del non-finito che, stranamente, sembra essere non una minore, ma una più grande bellezza del testo pascaliano? Può compiersi il libro della ricerca della verità, delle ragioni dell’assoluto? La destrutturazione della forma, i silenzi della scrittura hanno anch’essi un loro potere di significazione, e quale, e quanto inquietante, per chi già prova sgomento di fronte al silenzio degli spazi infiniti?
Qualche risposta viene, certo, da una ricontestualizzazione dei Pensieri nell’insieme dell’opera di Pascal. Pascal non amava finire. Nemmeno il suo testo più elaborato, le Provinciali, può dirsi finito: esso s’interrompe alla diciottesima lettera, proprio quando il tono della polemica è definitivamente cambiato e si entra nel vivo e nel serio delle definizioni teologiche. L’attività scientifica di Pascal è segnata dallo stesso fenomeno. Della ricerca scientifica egli amava il momento dell’intuizione e dell’invenzione, lasciando non di rado ad altri il compito di trarne le conseguenze. Uno dei suoi testi scientifici più belli è la Prefazione ad un trattato sul vuoto che non è stato scritto. E questa fretta, quest’ansia di andare oltre ha portato Pascal a distrarsi, globalmente, dalla sua brillante carriera di scienziato, per intraprendere altro. Era di quelli che lasciano la preda per l’ombra: ma ci accorgiamo subito che non abbiamo dato una risposta e, se mai, abbiamo formulato il problema più radicalmente.
Il fatto è che la cultura moderna riconosce nel frammento qualcosa come un suo emblema o un suo modulo generatore. Una pratica nuova della scrittura aforistica, tra fine Settecento e primo Ottocento; una folgorante poesia romantica, accompagnata da testi teorici, hanno portato a riconoscere una distanza sempre più grande tra il frammento come forma espressiva della modernità, e la forma breve dell’età classica. Le tradizionali forme brevi, pur con la loro disinvoltura e il loro carattere asistematico, tendevano alla compiutezza. L’incompleto, il non-finito non facevano parte dell’estetica classica, che, al più, poteva aprirsi al “non so che”, all’irrazionale e al sottile, accogliendo nella propria arte del dire quella parte di non-detto che il lettore avrà il piacere di pensare da solo. Il frammento moderno nasce invece da una frattura, radicalmente incompleto, portando il segno e la nostalgia della totalità assente: sia la totalità di un’opera organica – di un genere letterario – sia di una visione del mondo. La forma della frammentazione pone in modo ineludibile la questione del senso. Ecco che i Pensieri di Pascal, quale che sia la natura del loro essere frammentario, rivelandosi come un testo fondatore della modernità, suscitano alla lettura problemi e stimoli nuovi.
Anzitutto, sul piano estetico. Vi sono pensieri di Pascal intorno a cui il margine bianco della scrittura discontinua, il vuoto, anziché racchiudere l’espressione, la risucchia come in un vortice. «Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi sgomenta» (p. 162): una foglia di testo vaga lontano dal tronco: c’è una misura autosufficiente di bellezza nella sua prosodia sapiente («Le silence éternel / de ces espaces infinis / m’effraie»), nella sua struttura doppiamente binaria per la ripetizione dell’accostamento fra un aggettivo e un sostantivo, e per l’effetto d’eco fra i due aggettivi (éternel, infini) che imprime alla frase un’amplificazione, rendendo più brusca e efficace la chute brève del verbo: m’effraie. Accentuando la dimensione del frammento lirico, saremo portati a dare a sostantivi e aggettivi un senso il più possibile indeterminato, e il verbo avrà anch’esso una portata vaga un po’ come il leopardiano «ove per poco il cor non si spaura». Ma al contrario, come tassello anche minimo dell’opera apologetica, il frammento ha in ogni termine un preciso valore semantico, fino a quel dimostrativo – quegli spazi – che lo rilega alla meditazione sullo spazio infinito svolta altrove, per esempio in «Sproporzione dell’uomo»; fino a quel pronome personale – mi sgomenta – che rinvia, non all’io di chi scrive, né a un soggetto universale, ma, meglio, al non credente, per il quale i cieli non cantano la gloria di Dio. Tale è la continua ambivalenza della scrittura dei Pensieri: la sua oscillazione tra il puro frammento, che qualcuno ha chiamato «l’Assoluto letterario» [ 31 ], e l’incontornabile tutto. Per la loro natura ritmica, per l’unità dell’immagine che contengono, certe frasi pascaliane sono alle radici di una moderna poetica del frammento; così come certe pagine pascaliane – per esempio il brano sui tre ordini di grandezze – sono, è stato detto, fra i primi poèmes en prose della letteratura moderna. Ma il lettore esiterà, di fronte alla complessa bellezza dei Pensieri: più belli per un implicito di natura lirica? più belli per l’implicito scientifico, o filosofico, di cui solo l’integrità del testo offre le chiavi?
Alla questione estetica si sovrappone una problematica più vasta. La riflessione moderna sul frammento può avere ogni tipo d’implicazione, anche ideologica e metafisica. Intorno alla pratica della scrittura frammentaria si possono incrociare stati di coscienza diversi: da un lato, qualcuno dirà «in principio era il frammento»: Novalis ha lasciato un titolo, Grani di polline, e un’idea del frammento come seme: il senso e l’ordine vengono dopo o forse non vengono mai, per chi pensa che la mente umana si arroga arbitrariamente il compito di crearli. Altri penseranno il frammento come resto, rottame, testimone di una unità che si è franta. «Almeno a partire dal romanticismo – scrive M.A. Liborio [ 32 ] – il frammento viene dopo, quando la morte del discorso allude continuamente alla morte di Dio, dell’arte e della storia». Per Lucien Goldmann, autore negli anni ’50 di un celebre libro su Pascal e Racine – Il dio nascosto [ 33 ] –, per il suo discepolo Ralph Heyndels [ 34 ], la scrittura del frammento è l’unica espressione appropriata del pensiero tragico, in quanto struttura significante capace di dire il vuoto e veicolare la negazione. Tutta una scuola di esegesi pascaliana si fa riconoscibile nell’insistenza sul tema della critica alla ragione, sull’ossimoro tragico del Dio presente e assente, sulla decostruzione del linguaggio come figura della decostruzione dell’universo.
Di questa lettura filosofica non possiamo far carico ai criteri di edizione dei Pensieri: e tuttavia, tra filosofia e filologia possono passare relazioni complesse. Goldmann, per esempio, leggeva Pascal nell’edizione Brunschvicg, anziché nella recente edizione Lafuma; gli sembrava la più arbitraria e perciò, data la sua visione dell’opera di Pascal, la più giusta. In realtà, lo choc di un contatto diretto con la frammentarietà dei Pensieri, tramite la riproduzione delle due Copie, ha avuto l’effetto di un’onda lunga, effetto duplice e almeno in parte devastante. Ha rimesso in moto la passione degli studiosi, sempre più numerosi e giovanilmente infervorati – a partire dal maestro degli studi pascaliani, Jean Mesnard – intorno al rompicapo del testo pascaliano. Ma ha disorientato il lettore comune, aumentando la distanza tra lui e un’opera che necessita ormai, per la lettura, di sofisticate iniziazioni. Ciò è tanto più vero in Italia dove la mediazione della traduzione si aggiunge alle altre difficoltà di lettura. E in quella distanza si è insinuato il sospetto, ed è stata in parte revocata in dubbio quella «dimensione pascaliana» [ 35 ] – fatta di passione dell’assoluto, coscienza dell’umana condizione, potenza e sobrietà dell’immaginario – che qualcuno ha riconosciuto come filo continuo della letteratura moderna.