2. UNA RACCOLTA DI PENSIERI
Pascal muore nel 1662, a trentanove anni. Nel corso di un’esistenza fervida e febbrile, il suo «giovane» [ 6 ] genio si è dispiegato in campi diversi: matematica, fisica, eloquenza, filosofia, teologia, con una sorta d’impazienza che lo ha sospinto di volta in volta oltre e più in alto. Muore circondato da affetti familiari intensi, sobriamente manifestati – la sorella Gilberte scriverà una sua Vita un po’ come di un santo –, e dall’ammirazione di un cenacolo colto in cui emergono i Solitari di Port-Royal. Appunto a Port-Royal egli aveva presentato, in una brillante conferenza, il suo progetto di apologia: la delusione fu grande nel costatare quale «massa di pensieri staccati» [ 7 ] rimaneva al posto dell’opera incompiuta. Grazie al lavoro dei familiari e degli amici fu comunque curata un’edizione parziale, che apparve nel 1670 col titolo Pensieri sulla religione e su alcuni altri argomenti, e che è nota col nome di «Edizione di Port-Royal».
Già il titolo rivela quale criterio gli amici avessero seguito. Rinunciando al sogno di completare il libro, secondo la linea alta di quell’argomentazione che avevano colto dalla bocca dello stesso Pascal, ripiegarono sull’unica forma in cui la poetica dell’età classica permettesse di integrare il frammento: la raccolta di pensieri. Essi venivano disposti, non secondo il disegno originario dell’apologia, ma secondo un ordine «conveniente» [ 8 ], cioè per grandi rubriche, e obbedendo alla partizione evidenziata nel titolo: pensieri sulla religione, pensieri su altri soggetti. La prefazione di Etienne Périer tentava di suggerire la parte mancante, evocando per sommi capi il progetto apologetico, e invitando il lettore – come in uno di quei giochi di geometria proiettiva cui si appassionava lo scienziato Pascal – a completare, prolungare, leggere tra le righe un testo immaginario: «E credo che non ci sarà nessuno che non giudicherà facilmente, da questi inizi leggeri, e da queste deboli prove di una persona malata, scritti solo per sé, e per rimettersi nella mente pensieri che temeva di perdere, senza mai rivederli né ritoccarli, quale sarebbe stata l’opera intera, se il signor Pascal avesse potuto recuperare una perfetta salute e mettervi l’ultima mano, lui che sapeva disporre le cose in una luce e un ordine così belli, che dava un giro così particolare, nobile ed alto a tutto quanto voleva dire» [ 9 ].
Era l’età dei moralisti classici e del trionfo della forma breve. Pochi anni prima dei Pensieri di Port-Royal era uscita la prima edizione [ 10 ] delle Massime di La Rochefoucauld, in cui la chiusura e la perfezione della forma aforistica – chiara, e tuttavia elusiva; scandita da margini bianchi, come per dare risonanza al pensiero; capace di addomesticare il silenzio, l’assenza, come quel po’ di veleno, diceva La Rochefoucauld, che è ingrediente di un buon medicamento [ 11 ] – si coniugava con la natura aperta della raccolta, organizzata secondo sapienti e segrete strategie combinatorie. Sarebbero apparsi in seguito [ 12 ] i Caratteri di La Bruyère, altra raccolta di forme brevi, che l’autore avrebbe instancabilmente arricchito, fatto lievitare dall’interno, con spostamenti, interpolazioni, dimostrando ancora una volta quale sottile intento architettonico possa presiedere alla nascita di un libro discontinuo. I Pensieri dell’edizione di Port-Royal si iscrivevano senza sforzo in quella compagnia. Tanto più che la scelta editoriale non faceva che mettere in evidenza una dimensione ben presente nel testo pascaliano, ossia la sua connaturalità alla brevitas di una retorica anticiceroniana, di un’espressione diretta, naturale e incisiva, di cui Pascal stesso aveva riconosciuto il modello (cf. p. 401) in un’opera che breve certo non è: i fluviali, digressivi, ma sempre densi e pregnanti, sempre affabili e vivi, Saggi di Montaigne.
Se i moralisti classici rifuggono dalle forme sistematiche del trattato, se amano la rapidità del segno e la mobilità del punto di vista, non è solo perché si rivolgono a un pubblico non pedante e imitano lo “stile medio” della conversazione. È anche perché sono convinti di affrontare un oggetto – l’uomo – che si sottrae alla stabile presa della trattazione esaustiva: ondeggiante e diverso, in perpetua contraddizione con se stesso, composto di membra ibride che suggeriscono a Pascal nomi inquietanti come «chimera», «caos», «mostro», «prodigio» (cf. p. 121). Se la scrittura dei moralisti è discontinua, ciò accade anche perché la loro antropologia è rotta al suo interno da una contraddizione. Da una parte, essi sono i maestri dell’analisi, tesi a conquistare nuovi territori alla chiarezza e alla definizione; sognano di mappe psicologiche piane, a due dimensioni, e magari di trasparenti allegorie [ 13 ]. Dall’altra, sanno di confrontarsi con una materia oscura, e sono pronti ad affermare che più si va avanti nella conoscenza dell’uomo più sorgono «terre ignote» [ 14 ], tanto che sotto il loro sguardo le superfici piane si incurvano e per la prima volta emerge nella letteratura morale la dimensione del profondo [ 15 ].
La retorica delle forme brevi e discontinue, quale può fissarsi in una raccolta di pensieri, aveva dunque una sua congenialità con la scrittura di Pascal. Non era inadatta a dare un volto letterario a quello che Pascal stesso chiamava l’«ordine del cuore» (e di cui aveva conosciuto le leggi osservando l’andamento del discorso biblico, ove approcci molteplici e infinite digressioni riconducono costantemente ad un centro, cf. p. 253). Si confaceva d’altra parte a quel soggetto disordinato, l’uomo, cui «farei troppo onore» – diceva Pascal – trattandolo con ordine (p. 339). Presentare i frammenti pascaliani come una raccolta di pensieri significa insomma accentuare in Pascal la presenza di un moralista, ossia di uno spettatore dell’umano, di un conoscitore dei costumi e del cuore, che offre al lettore uno specchio perché vi si ritrovi, e formule felici e violente perché se le imprima nella memoria. È facile ricondurre a un Pascal moralista molti frammenti tra i più noti dei Pensieri: per esempio, gli sviluppi sul tema del «divertimento» o dell’irresistibile tendenza a mettere costantemente del movimento tra sé e quel riposo cui pure si aspira (p. 130); le analisi del funzionamento dell’immaginazione, «potenza ingannevole» e «regina del mondo» (p. 85); e in generale tutte quelle filze di pensieri in cui la dialettica della grandezza e della miseria dell’uomo è affrontata ad altezza d’uomo, come fenomeno e come paradosso, senza esplicitare ancora il presupposto teologico che la sottende. Nel titolo dell’edizione di Port-Royal «alcuni altri argomenti» sono appunto il campo dell’osservazione psicologica e morale, coperto da un’etichetta indeterminata e dallo stesso plurale negligente che già si manifestava nella prima parte del titolo: «Pensieri».
Certo, i messieurs de Port-Royal erano lungi dal voler ridurre la portata teologica e religiosa del testo pascaliano, in realtà evidenziata e anteposta, nella loro edizione, alle riflessioni sull’uomo (come se in Pascal fosse possibile separare la questione dell’uomo dalla questione di Dio). Ma al di là delle caratteristiche della prima edizione [ 16 ], il gusto di leggere l’abbozzo dell’apologia come pura silloge di pensieri si perpetuerà, autorizzando negli editori libertà, esperimenti, e abituando il lettore a una sorta di “pensiero debole” di Pascal, chiuso nel soffio della forma breve, ambiguo come può esserlo qualche volta la chiarezza della massima. Ecco che verso la fine del Settecento [ 17 ] un’edizione di stampo illuminista (a cura di Condorcet e con l’apporto di Voltaire) scegliendo, riducendo, cambiando l’ordine, accorciava anche il titolo, fissando quello che sarebbe stato consegnato ai secoli successivi: semplicemente Pensieri. Il Pascal scienziato e moralista oscurava ormai il Pascal mistico e teologo. La discontinuità della scrittura si confermava come principio di un “debole”, ma inconfondibile genere letterario.
È ancora così che abbiamo conosciuto Pascal in una delle edizioni tuttora correnti, e che hanno avuto più fortuna nel XX secolo: l’edizione Brunschvicg. Apparve alla fine dell’Ottocento [ 18 ] e sembrò una soluzione finale al problema dei Pensieri. Era un assetto chiaro, quasi museale, che sovrapponeva un’architettura razionale, tutta prefabbricata, alla complessità dialettica della ricerca pascaliana. Si entrava nelle diverse sezioni, come di stanza in stanza, trovando i pensieri di Pascal raggruppati per temi e per tappe di ragionamento. Solo chi conosce bene i Pensieri percepisce la sottile violenza di quell’ordine. Per esempio, Brunschvicg si arrogava il diritto di decidere dove collocare uno dei frammenti pascaliani più densi e suggestivi, ma più problematici rispetto all’asse dell’apologia: l’argomento della «Scommessa», in cui Pascal, secondo la logica del calcolo delle probabilità, invita l’interlocutore “libertino”, nel buio della ragione, a puntare tutto su Dio, barattando il finito contro l’infinito, in nome della felicità e della vita (e ha dal libertino una risposta angosciata: hai ragione, vorrei farlo, ma non posso; cui segue il supremo appello: fallo comunque – prega, compi i gesti della fede che non hai, macchinalmente). Brunschvicg, organizzando liberamente la raccolta di pensieri, poneva il frammento della scommessa come un’articolazione fondamentale e quasi un po’ il culmine dell’apologetica pascaliana. Tramandava così l’immagine di un Pascal scettico e tragico; assolutizzava una dimensione autentica, ma non unica, della personalità pascaliana: il gusto del rischio e del salto, il principio della discontinuità trasferito, dalla scrittura letteraria, alla realtà più profonda dell’esistenza.