3. UN “PIANO” DA RICOSTRUIRE
Ma l’opera apologetica aveva invece un suo “piano”, un suo movimento continuo, ove la ragione è implicata fino in fondo. La prefazione scritta da Etienne Périer “raccontava” al lettore quel movimento che era praticamente scomparso nell’assetto della prima edizione. Un contemporaneo, Filleau de La Chaise, ha lasciato un testo assai articolato, nel quale affermava di riportare, a memoria, i contenuti della famosa conferenza di Pascal a Port-Royal, annuncio del “piano” dell’apologia [ 19 ]. Vi è dunque un “pensiero forte” nel testo di Pascal, in cui riaffiora, cambiando di livello, tanto il rigore dei modelli scientifici elaborati dal matematico e dal fisico (l’esprit de géométrie), quanto la duttilità dei modelli elaborati per la conoscenza della sfera antropologica e storica (l’esprit de finesse): gli uni e gli altri posti a servizio della ricerca di verità ultime sulla questione di Dio, che è anche, inseparabilmente, la questione dell’uomo. Nella vicenda delle edizioni dei Pensieri si delinea, da inizio Ottocento fino ad oggi, un filone di edizioni che seguono un “piano”: tanti tentativi di presentare i Pensieri come il libro che dovevano essere; e ogni volta la persuasione di aver restituito il vero Pascal e per via induttiva, lavorando su un canovaccio, aver dato corpo all’apologia ideale, al testo immaginario.
Tali edizioni hanno il merito di mettere in luce una dimensione fondamentale dei Pensieri. Pascal è il più grande apologista dei tempi moderni. La sua riflessione sulle ragioni della fede implica anche una vasta inchiesta epistemologica, una riflessione sui linguaggi, i metodi, i criteri di conoscenza. C’era stata, ricordiamolo, la frattura operata da Descartes, rispetto al quale Pascal prende altre strade, fino ad affermare un’idea radicalmente diversa di Dio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe», il «Dio di Gesù Cristo» (p. 487), non dei filosofi e dei sapienti; un Dio salvatore, non il Dio orologiaio che mette in moto, con un «buffetto», l’immenso meccanismo dell’universo. Questo Dio non si trova col travaglio di una coscienza razionale che specchiandosi in se stessa raggiunge delle evidenze e fonda delle certezze. «Quand’anche un uomo fosse persuaso che le proporzioni dei numeri sono verità immateriali, eterne e dipendenti da una prima verità in cui sussistono e che chiamiamo Dio, non mi sembra che avrebbe fatto molti passi avanti per la sua salvezza» (p. 174). Questo Dio, non lo si trova nemmeno contemplando le meraviglie della natura: la religione di Pascal è lontana tanto dall’ateismo quanto dal teismo, dall’idea di un essere supremo con cui stabilire, in nome di una vaga religione naturale, un rapporto non troppo impegnativo di ammirazione e di sottomissione. «– Come, non siete proprio voi a dire che il cielo e gli uccelli provano Dio? – No. Perché sebbene ciò sia vero in un certo senso per alcune anime a cui Dio ha dato questa luce, tuttavia è falso per i più» (p. 323).
Pascal vive nell’epoca delle grandi scoperte che hanno sconvolto la visione dell’universo. «Dal mondo chiuso all’universo infinito» [ 20 ], una cosmologia nuova sta nascendo, di cui la più potente rappresentazione immaginaria è proprio nel frammento pascaliano intitolato «Sproporzione dell’uomo» (p. 155): frammento orchestrato sul tema dei due infiniti (di grandezza e di piccolezza) rispetto ai quali la posizione dell’uomo, lungi dall’essere al centro, come aveva voluto l’umanesimo rinascimentale, è un precario e vertiginoso stato di sospensione tra due abissi. La grandiosità senza pari della nuova immagine dell’universo reca ancora testimonianza della gloria di Dio, ma con un linguaggio altro, “negativo”, con parole di silenzio e di assenza, nel senso in cui si parla di teologia negativa o di linguaggio negativo dei mistici. «Abbiamo un bel gonfiare le noste concezioni oltre gli spazi immaginabili, generiamo solo atomi rispetto alla realtà delle cose. Infine, è il più grande fra i segni sensibili dell’onnipotenza di Dio, il fatto che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero» (p. 155).
Di fronte al silenzio degli spazi; di fronte all’evoluzione di un’idea di ragione che ha ancora bisogno, momentaneamente, di ricorrere a Dio come causa prima e verità sussistente, per poi disfarsi definitivamente di lui (gli sviluppi del razionalismo postcartesiano lo dimostreranno), l’apologia pascaliana sposa il movimento profondo di un pensiero spirituale: la spiritualità del Dio nascosto. Essa vibrava negli ambienti religiosi frequentati da Pascal, impregnati di agostinismo, sensibili all’influenza berulliana, e più ampiamente nei vari filoni della cultura mistica del grande secolo. Una superba esposizione intitolata appunto al «Dio nascosto» (Roma, Accademia di Francia, 2000) ha dimostrato l’irraggiamento di questo tema, la sua implicazione in una retorica “gallicana” più sobria ed essenziale rispetto a quella dei gesuiti o di una trionfante Controriforma, la sua effusione nel vasto simbolo del chiaroscuro che caratterizza tanta pittura secentesca: ad esempio le Maddalene di Georges de La Tour, brune e bianche, lo sguardo fisso, nella penombra della stanza, su una candela dall’alone intensissimo. Il Dio nascosto è il Dio del chiaroscuro; il Dio dell’«avvento mite» («avènement de douceur», p. 149), che si rivela e si cela: che parla attraverso un’economia di segni, facendosi conoscere da chi lo cerca con tutto il cuore e sottraendosi a chi non lo cerca – in particolare, a chi non ha lo sguardo abbastanza puro da fissare il mistero della «kénosis», dell’abbassamento e umiliazione di «un Dio così santo» (p. 316). Il Dio nascosto è il Dio discreto, che parla e tace nelle realtà della natura e della storia, nelle verità della Scrittura e dei sacramenti, in particolare del sacramento dell’Eucarestia – centro della spiritualità di Port-Royal – luogo del più “strano” nascondimento e della rivelazione più profonda. Un piccolo quadro di Philippe de Champaigne presenta una scena di adorazione dell’Eucarestia, in cui l’ostensorio si vede appena, e domina invece la scena, nel riquadro di un cielo notturno, bianca come un’ostia, la luna. Siamo, con questo gioco di immagini, al cuore della visione pascaliana del mondo, come egli l’ha esposta per esempio in una celebre lettera a Mlle de Roannez: visione di un universo di veli e di trasparenze, ove si svolge, in una reciproca quête, la partita appassionante tra Dio e l’uomo: «Tutte le cose coprono qualche mistero; tutte le cose sono veli che coprono Dio» [ 21 ].
La fede è «Dio sensibile al cuore» (p. 61). Per chi ha presente la ricchezza dell’idea di cuore in Pascal, questa definizione ci porta ben lontani dal fideismo o dal sentimentalismo che qualche volta gli sono stati attribuiti. Se il cuore pascaliano raccoglie pienamente un’eredità biblica e agostiniana che lo fa centro della persona, sede non solo di sentimenti ma delle tendenze profonde della volontà, esso è anche mente intuitiva, organo dei “primi princìpi”: «Il cuore sente che vi sono tre dimensioni nello spazio e che i numeri sono infiniti» (p. 112). Ed è nel fondo del cuore, evocato dall’immaginario di Pascal con toni drammatici – come vuoto e baratro, cloaca e serra di piante venefiche – che avviene l’incontro con il «Dio degli uomini» (p. 167), festa nuziale la cui dolcezza e letizia non dev’essere mai dimenticata da chi insiste sull’austerità spirituale di Pascal: «Il Dio dei cristiani è un Dio di amore e di consolazione; è un Dio che ricolma l’anima e il cuore di quanti sono suoi; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua misericordia infinita, che si unisce al fondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine se non lui stesso» (p. 174). Si è accesa nel cuore, non la fiaccola del moralista, quella con cui il giansenista Pierre Nicole proponeva di esplorare i bassifondi dell’essere [ 22 ], ma la fiamma su cui fissa lo sguardo la Maddalena di La Tour, mai più sola nella sua stanza spoglia: la luce della contemplazione.
È tempo di chiedersi quale parte abbia la ragione in un percorso apologetico il cui orizzonte finale è non un semplice assenso della ragione, ma un impegno totale della persona e una religione autenticamente mistica (di cui vari testi di Pascal danno testimonianza e anche alcuni inseriti, a torto o a ragione, nel corpus dei Pensieri, come «Il Mistero di Gesù»). Ha prevalso in alcuni periodi nella ricezione di Pascal, dall’età romantica in poi, l’idea di una fede pascaliana strappata alla “disperazione” della ragione, priva di fondamenti naturali e razionali. Ma proprio in tempi più recenti una scuola di studiosi che Antony McKenna ha chiamato, sobriamente, «scuola storica» [ 23 ], si è chinata sui testi di Pascal per far emergere la continuità di modelli di pensiero da un capo all’altro dell’opera, e il filo di un pascaliano «discorso del metodo», anticartesiano certo, ma non antirazionalista. Già nelle operette scientifiche Pascal aveva dimostrato l’interesse per le verità paradossali, il ritmo dialettico di un pensiero che passa attraverso «rovesciamenti dal pro al contro» (p. 106) e non afferma una verità senza tener conto anche dell’opposto, il gusto delle dimostrazioni in cui la ragione mette in scacco la ragione: «Non tutto ciò che è incomprensibile manca di essere» (p. 194). Parte dell’opera scientifica di Pascal è volta a indagare i limpidi paradossi della ragione: la logica più rigorosa porta a conclusioni che i sensi, il buon senso, o una ragione più corta, credevano di dover escludere. A questo sconcertante confronto della mente con ciò che essa può dimostrare senza capire, o con ciò che essa può affermare e negare contemporaneamente, si articola uno degli aspetti più originali della riflessione pascaliana: una teoria della decisione, in cui è preso atto che verità non dimostrate e semplicemente probabili hanno, ai fini di una decisione pratica, lo stesso valore di una certezza. E a questo punto i procedimenti logico-formali si aprono a una definizione assai più vasta di ragionevolezza (d’altronde il matematico Pascal aveva espresso a proposito della «geometria», metafora del pensiero logico-deduttivo, giudizi sconcertanti: «La matematica è inutile, nella sua profondità», cf. p. 385; «Per parlarvi francamente della geometria, trovo che è il più alto esercizio della mente; ma [...] è adatta a fare il saggio, non però l’impiego della nostra forza: così che non farei due passi per la geometria» [ 24 ]).
Michel Serres ha presentato, in un saggio di notevole interesse per comprendere l’epistemologia pascaliana, l’analisi di Pascal in matematica, in fisica e in filosofia come la ricerca della coerenza tra diversi punti di vista [ 25 ]. Altri hanno messo in rilievo come Pascal rielabori l’idea di prova, attraverso una riflessione che è alle radici stesse dei Pensieri: partendo dalla fenomenologia dei miracoli, delle profezie, dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento, egli va oltre le problematiche dell’esegesi biblica del suo tempo per interrogarsi sui criteri di verità di prove di natura antropologica e storica. Approfondisce così le ragioni della fede, e fonda un nuovo modello di apologetica; ma non è solo questa la portata del travaglio pascaliano. Nell’esercizio di una ragione paradossale e dialettica, relativizzata e coerente, Pascal contribuisce a segnare alcune direzioni del pensiero moderno.
Le edizioni dei Pensieri che hanno scommesso sulla possibilità di ricostruire il “piano” pascaliano sono quelle da cui emerge maggiormente il profilo di Pascal apologista e autore spirituale, coscienza pensosa della fede cristiana. Ce n’è una, a cura di Jacques Chevalier, che – com’era accaduto qualche decennio prima per l’edizione Brunschvicg – ha improntato largamente la ricezione pascaliana per una parte del XX secolo [ 26 ]. Ha creato lettori affascinati da quella musica dell’anima che si svolge tra un incipit e un excipit ugualmente suggestivi: «Gli uomini hanno disprezzo della religione; ne hanno odio, e paura che sia vera. Per guarirli da questo, bisogna cominciare col mostrare che la religione non è affatto contraria alla ragione, venerabile, suscitarne il rispetto; renderla poi amabile, far desiderare ai buoni che sia vera; e quindi mostrare che è vera» (p. 326), sono le prime parole dei Pensieri nell’ed. Chevalier, e le ultime:
«Eorum qui amant.
Dio inclina il cuore di quelli che ama.
Deus inclinat corda eorum.
Colui che Lo ama.
Colui che Egli ama» (cf. p. 306).
Tra questo inizio e questa fine, tra le ragioni della ricerca di Dio e il mistero amoroso dell’accoglienza alla fede, il libro si è svolto come un’unica frase, con sorprendente naturalezza. La strategia redazionale di Chevalier fa pensare a un capolavoro di traduzione, mediante il quale sussiste, uguale e diversa da se stessa, un’opera andata persa nella sua lingua originaria.