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Noah, dopo
«Dove stiamo andando?»
Noah camminava tra Stanislavsky e Evesham. Osservava attentamente
il corridoio alla ricerca di vie di fuga, ma non ce n’era nessuna.
Il corridoio era lungo e, vicino al soffitto, erano installate le
telecamere di sorveglianza.
«Abbiamo un telefono che puoi usare» rispose Stanislavsky, evasivo.
«E dove si trova il telefono?» Anche Noah rimase evasivo. Non voleva far capire
loro che sospettava qualcosa. Oltre che nervoso era completamente
disorientato. Non conosceva sufficientemente bene Graterford da
sapere in che punto della prigione si trovasse. Alle sue spalle
c’era la porta chiusa a chiave dell’unità di custodia
amministrativa e davanti a sé si trovava un’altra porta chiusa a
chiave.
Stanislavsky aveva
un’espressione di disappunto. «Stiamo
improvvisando, dato che non possiamo riportarla al braccio C. I
pezzi grossi sono ancora lì per via dell’omicidio di Jeremy Black e
le sale riunioni sono tutte occupate.»
«Allora dove stiamo andando?» chiese di nuovo Noah. Arrivarono alla fine del
corridoio, ma non c’erano finestre nelle porte di metallo, quindi
non riusciva a vedere che cosa ci fosse dall’altra parte.
Si fermarono e Evesham tirò
fuori un mazzo di chiavi tintinnanti dal suo cinturone e aprì la
porta. «Dottor Alderman, si faccia da
parte, per favore.»
Noah fece quello che gli era
stato chiesto. Non avevano risposto alla sua domanda. Temeva che
stessero aspettando il momento giusto. Stanislavsky continuava a
mostrare disappunto, con evidente noncuranza.
Evesham aprì la porta e il
cuore di Noah cominciò a battere forte. Sentì una scarica di
adrenalina, il suo corpo era in allerta per combattere o fuggire.
Ricordò a sé stesso che era più grosso di quanto non fosse stato in
passato. Con le mani libere, sarebbe stato in grado di sferrare un
pugno. Avrebbe anche potuto mettersi a correre, se fosse stato
necessario.
«Entri, dottor Alderman.» Evesham gli indicò la porta aperta e Noah entrò,
seguito da Stanislavsky.
«Da questa parte»
disse Stanislavsky, mentre attraversavano un altro corridoio.
Noah gli camminava a fianco.
Scesero un breve piano di scale, poi entrarono in un altro lungo
corridoio a blocchi di calcestruzzo, che era opprimente. Dovevano
essere più vicini alla stanza delle caldaie.
Noah sentiva il cuore
martellare. Cercava un posto per scappare, ma non c’erano vie di
fuga. Le telecamere di sorveglianza erano distribuite a intervalli
regolari. Si disse che tanto non avrebbero potuto disattivare tutte
le telecamere. Eppure non aveva idea di dove si trovassero. Era una
zona sospettosamente remota.
«Dove stiamo andando?»
chiese di nuovo Noah, mentre andavano incontro a un altro corridoio
e a un’altra serie di porte di metallo, che Evesham andava ad
aprire e teneva aperte.
«Si faccia da parte, dottor Alderman.» Stanislavsky indicò il corridoio mentre spalancava
la porta.
Noah stava per mettersi a
correre quando vide Evesham camminare lungo il corridoio fino a una
porta di metallo e, proprio nel momento in cui stava per aprirla,
uscirono due guardie carcerarie donna che si misero a ridere quando
quasi si scontrarono con Evesham.
«Mark! Che ci fai quaggiù?» chiese una delle due, una bionda di nome
lundy, come si evinceva dalla
targhetta. Aveva in mano un vassoio di alluminio con sopra una
torta ripiena alla vaniglia mangiucchiata.
Evesham indicò Noah.
«Il nostro detenuto vip deve parlare con il suo avvocato, e le sale
riunioni sono occupate.»
«Oh, cavolo.» Lundy
fece una smorfia. «Se sapevamo che
avevamo compagnia, pulivamo un po’.»
«Infatti,» disse
l’altra «potevamo fare una torta! Oh,
aspetta, eccola qua!»
Le guardie risero di gusto,
poi si fecero da parte mentre Stanislavsky faceva cenno a Noah di
proseguire, dicendo: «Il telefono è
tutto suo, dottor Alderman. Prema nove per la linea esterna. Non è
controllata. Ha quindici minuti. Noi aspettiamo
fuori.»
«Entri, dottor Alderman» disse Stanislavsky, impaziente.
«Potrebbe togliermi le manette, signor
Stanislavsky?» chiese Noah,
voltandosi per offrire loro i polsi.
Evesham scoppiò a ridere.
«Stan, scemo di un polacco che non
sei altro! Come fa a fare il numero, secondo te?»
Le guardie risero,
Stanislavsky tolse le manette a Noah e chiuse la porta alle sue
spalle. La stanza era una piccola cucina con un tavolo di formica
rotondo e sedie di plastica trasparente. Contro la parete, c’era un
armadietto di legno, un vecchio forno a microonde bianco e un
telefono marrone chiaro. Noah andò verso il telefono e compose il
numero di cellulare di Thomas, che rispose dopo due squilli.
«Thomas, sono Noah Alderman.»
«Noah, come stai?»
chiese Thomas in tono affettuoso. «Dove sei?»
«In una cucina a Graterford. Hai letto dell’omicidio
di Jeremy Black?»
«Sì, certo.»
«Devi tirarmi fuori di qui» disse Noah, poi raccontò a Thomas tutto quello che
era successo, dicendogli anche che era stato Jimmy Williams a
uccidere Jeremy Black. Quando Noah ebbe finito, chiese:
«Allora, che ne pensi? Riesci a farmi
trasferire?»
«Ci provo. Le informazioni che mi hai dato sono
molto preziose.»
«Puoi usarle per accelerare le cose. Con loro farò
una deposizione. Questo farà di me un informatore, ma non ho altra
scelta.»
«Sicuramente» disse
Thomas, in tono preoccupato. «Spero
di riuscire a farti trasferire, ma la domanda è quando. La
burocrazia carceraria è la peggiore di tutte.»
«Deve essere il prima possibile. Non sono al sicuro
qui, neanche nell’unità di custodia amministrativa.»
«Farò alcune chiamate e comincerò a smuovere le
acque.»
«Grazie, Thomas» disse
Noah, con gratitudine.
«Stammi bene. Buonanotte.»
«Buonanotte.» Noah
riagganciò. Non riusciva a ricordare quand’era stata l’ultima volta
che qualcuno gli aveva augurato la buonanotte. Gli tornò alla mente
Maggie che gli dava la buonanotte, prima che lui l’abbracciasse da
dietro a letto, entrambi distesi su un fianco, sotto il loro grande
piumone azzurro. In una notte d’inverno come quella, Maggie adorava
essere stretta fra le sue braccia, sentiva sempre freddo. Indossava
dei calzini di cotone per dormire e Noah pensava che fosse una cosa
adorabile.
Noah scacciò quel ricordo,
attraversò la stanza e aprì la porta, ma ad aspettarlo c’erano tre
guardie: Stanislavsky, Evesham e un uomo con la barba di nome
Pinnella.
«Manette, dottor Alderman» disse Stanislavsky.
Noah rimase fermo.
«Perché ho bisogno di tre guardie che
mi scortino all’unità di custodia amministrativa?»
«Perché lei mi ha minacciato» rispose Evesham, indietreggiando come se si fosse
spaventato.
«Ma non è vero» Noah
si rese conto troppo tardi che stavano recitando per la telecamera
di sorveglianza.
Improvvisamente i tre gli
furono addosso, lo atterrarono, cominciarono a colpirlo con calci e
pugni e gli misero le manette. Noah cercò con tutte le forze di
colpire a sua volta. Si piegò con tutto il corpo a destra e a
sinistra per evitare i colpi. Si chiuse in posizione fetale per
proteggere il busto. Assorbì pugno dopo pugno.
L’ultima cosa che ricordò fu
un violento colpo alla testa.