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Noah, dopo
Della notte precedente Noah
aveva un ricordo vago ma terribile, le guardie carcerarie che
correvano dentro la cella, portando via il detenuto morto, mettendo
sotto isolamento il braccio e portando lui, Peach e l’altro
detenuto in un’ala di sicurezza per l’interrogatorio. La polizia e
gli agenti penitenziari interrogarono Noah per ore, e lui aveva
detto loro che cosa era successo, a eccezione dell’ago di
contrabbando. In quei primi momenti di concitazione, l’aveva
afferrato dal pavimento, l’aveva nascosto nel palmo della mano e
l’aveva gettato nel corridoio fuori dal braccio.
Al termine
dell’interrogatorio all’alba, gli agenti avevano deciso di non fare
rapporto a Noah perché credevano alla sua versione, secondo la
quale lui non era a conoscenza dello scontro né del fatto che la
porta della cella fosse aperta. Non gli era stata data la
possibilità di accordarsi con Peach sulla versione da dare, ma
erano in prigione da una quantità di tempo sufficiente per sapere
che non si doveva fare la spia. I superiori sapevano che Noah era
appena arrivato in prigione, e questo aveva deposto a favore della
credibilità della sua versione, e avevano un problema interno, dal
momento che una guardia carceraria doveva aver lasciato
intenzionalmente aperta la porta della cella. Noah aveva pensato
che si trattasse di Evesham, a meno che non fosse stata un’altra
guardia carceraria ad averla aperta dopo che lui e Peach si erano
addormentati. Noah aveva sentito storie di guardie che lasciavano
le porte delle celle aperte di notte, facendo finta di non vedere
in modo che i detenuti potessero scontrarsi, vendere droghe o fare
sesso. In ogni caso, non era un suo problema.
Tuttavia, in quelle
circostanze Noah si era reso conto di non avere alcun controllo su
niente. Era sempre stato il tipo di persona che aveva tutto sotto
controllo, persino quando studiava medicina all’università. È per
quello che prendeva tutti quegli appunti, ed era per quello che era
convinto che l’impegno avrebbe portato al successo e alla felicità,
come se controllare il processo equivalesse a controllare il
risultato. Ma non c’era nessuna relazione logica tra il processo e
il risultato, nella vita. E c’era voluto tutto quello che gli era
successo per arrivare a capirlo, a partire dall’arrivo di Anna per
finire a Graterford, interrogato per un’altra vita che non era
riuscito a salvare. Imparare quella lezione gli era costato Maggie,
Caleb e la sua libertà. La sua famiglia.
Al mattino, a Noah fu
permesso di fare una doccia e cambiarsi, con una guardia carceraria
a fare da palo. Ma Noah non si fidava nemmeno di lui. Le guardie
carcerarie non sarebbero state dalla sua parte ora che, a causa
sua, uno di loro era stato punito o licenziato. Cominciò a sentirsi
scosso per la violenza che aveva visto. Non riusciva a togliersi
dalla testa quelle immagini, e ora che sapeva di non avere nessun
controllo, si sentiva ancora più vulnerabile.
Fu scortato per la colazione
a un orario tardo e fu condotto lungo il corridoio fino alla mensa.
Ormai la prigione non era più in isolamento, altrimenti l’orario
dei pasti sarebbe diventato un incubo logistico, dal momento che i
detenuti avrebbero dovuto ricevere il pasto nelle celle, cosa che
avrebbe richiesto ulteriore forza lavoro, mettendo a dura prova le
risorse umane e finanziarie.
Noah entrò nella mensa e si
mise in fila, afferrando un vassoio, le posate di plastica e un
tovagliolo, lanciandosi occhiate alle spalle, in automatico. La
mensa era un lungo rettangolo con tavoli di acciaio inossidabile e
le solite pareti luride in blocchi di calcestruzzo bianco. Le
guardie carcerarie erano disposte lungo la parete, all’ingresso e
all’uscita, e Noah notò che c’erano più guardie del solito a causa
dell’omicidio, ma quello non lo rassicurava.
La fila avanzò e così fece
Noah, spostando il vassoio, guardando le uova liofilizzate, lo
spezzatino di manzo in una brodaglia, e il pane bianco. Alzò il
piatto e accettò il cibo, e con la coda dell’occhio, vedeva i
detenuti che iniziavano a guardarlo, le teste che si giravano per
osservarlo. Noah era pronto a scommettere che ne sapessero più loro
dell’omicidio di quanto non ne sapesse lui. Fu solo durante
l’interrogatorio che scoprì il nome del detenuto che era stato
ucciso. Jeremy Black. Noah arrivò alla fine della fila, prendendo
un cartone di latte. Si diresse verso i tavoli, che stavano
iniziando a svuotarsi, i detenuti si giravano a guardarlo mentre se
ne andavano, le loro espressioni erano dure. Vide un tavolo vuoto
sulla sinistra, quindi andò in quella direzione, si sedette con il
suo vassoio e iniziò a mangiare le uova, che erano tiepide e troppo
salate.
Noah aveva appena iniziato a
mangiare lo spezzatino di manzo quando un detenuto nerboruto si
sedette di fronte a lui con il suo vassoio. La testa dell’uomo era
rasata e tatuata con segni tribali, aveva occhi marroni e stretti e
un labbro inferiore che sporgeva da una mandibola prominente.
«Ciao» disse il
detenuto in tono calmo.
«Salve» Noah buttò giù
un’altra forchettata di spezzatino di manzo. Le guardie stavano
osservando, girando la testa verso di loro.
«Mi chiamo John Drover.»
«Noah Alderman.» Noah
vedeva che le guardie si stavano avvicinando, ma non capiva il
perché.
«Lo so. Hai fatto morire il mio
amico.»