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Noah, dopo
Noah non sapeva che cosa avesse voluto dire Evesham quando aveva detto che lo stavano aspettando, ma sicuramente non era una cosa positiva. Continuava a seguire la guardia carceraria percorrendo il secondo livello del Braccio C, lungo quasi ottanta metri, con due livelli di celle su ciascun lato. Le celle erano piene, due detenuti per ogni cella, ed erano chiuse a chiave a quell’ora, era quasi ora di spegnere le luci. Noah continuava a guardare davanti a sé mentre passavano, con lo sguardo fisso su Evesham, la cui corporatura massiccia metteva a dura prova le cuciture della sua divisa scura con le spalline e il distintivo di panno dorato e nero della polizia penitenziaria della Pennsylvania.
I detenuti si avvicinarono alle porte delle loro celle, appoggiando i gomiti sulle sbarre, gridando ‘Salve, dottore’, ‘Ehi’ e un altro disse a gran voce ‘Dottore in visita!’ e risero tutti. Non era come in tv, con i detenuti che gridavano cose luride come ‘carne fresca’, ma la realtà era molto più sinistra. Noah sentiva agitarsi una corrente sotterranea lungo il braccio mentre passava, come un moto ondoso incessante sotto la superficie.
«Eccoci arrivati.» Evesham si fermò davanti a una cella verso la fine del braccio, dove il suo compagno di cella, più vecchio di lui, era disteso sul letto più in basso e stava leggendo un vecchio libro in edizione tascabile di Louis L’Amour, con le caviglie incrociate. L’uomo aveva all’incirca settant’anni, era basso e magro, con dei sottili capelli grigi, un naso dritto sul quale era appoggiato un paio di occhiali bifocali deformati, e un sorriso cordiale, sebbene le apparenze potessero ingannare in prigione. Nel carcere della contea di Montgomery, la vera minaccia era rappresentata dai vecchi malavitosi, che ordinavano ai più giovani di fare il lavoro sporco.
«Entra e girati» disse Evesham e Noah obbedì mentre la guardia carceraria apriva la cella per poi togliergli le manette. Noah mise giù il materasso e le lenzuola sul letto di sopra, ed Evesham chiuse a chiave la porta prima di allontanarsi.
«Mi chiamo Noah Alderman» disse, e il vecchio si alzò in piedi, porgendogli una mano avvizzita.
«E io sono Mike Smith, ma mi chiamano Peach perché sono rugoso come un nocciolo di pesca.» Peach appoggiò un gomito nodoso sul telaio del letto.
«Piacere, Peach.» Noah srotolò il materasso, guardandosi intorno. La cella era grande poco meno di due metri per quattro e le pareti erano fatte con dei luridi blocchi di calcestruzzo bianco. In fondo, c’era una finestra verticale lunga e sottile e sotto c’era la mensola di Peach, sulla quale erano riposti prodotti da bagno, libri in formato tascabile e, stranamente, un collage di ritagli di giornale di Tony Bennett.
«Somigli al dottor Kildare, della tv. Sei abbastanza vecchio da conoscere il dottor Kildare? Un bell’uomo. Un medico. Il dottore Kildare.»
«Ah sì, il dottor Kildare.» Noah aveva capito che Peach era un tipo loquace. Mise il suo kit da toilette su uno stretto ripiano di metallo accanto a un gabinetto aperto e a un orinatoio.
«Sei arrivato tardi. In genere questa non è l’ora degli arrivi. Ti hanno già detto quale lavoro ti hanno assegnato?»
«No.» Noah aprì il coprimaterasso e lo mise intorno al materasso.
«Ne devi prendere uno buono. Io lavoro nella bottega pellame. Faccio gli stivali. È il migliore di tutti. C’è una lista d’attesa. Le uniche persone che lavorano lì sono ergastolani. Bisogna aspettare che muoia qualcuno perché si liberi un posto.»
«Qual è un altro lavoro buono?» Noah mise il lenzuolo e il cicalino iniziò a suonare, rimbombandogli nelle orecchie.
«Prova la lavanderia.» Peach si distese di nuovo sul letto. «La sartoria fa schifo, la cucina fa schifo, la falegnameria è decente. Un mio amico lavora lì. Può metterci una parola buona. Conosce un po’ di persone.»
«Grazie.» Noah finì di fare il letto, poi andò al lavandino, si spazzolò i denti e si lavò. Era già andato in bagno prima che lo portassero in cella. La mancanza di privacy era una delle cose che più odiava della prigione. Sarebbe dovuto arrivare a un ‘punto di accettazione’.
«Non parli molto tu.»
«Sono stanco.» Noah salì sul suo letto, si distese e si cucì la bocca, in modalità prigione. Improvvisamente suonò un altro cicalino e le luci si spensero di colpo.
Peach bofonchiò. «E che diamine, non ho manco finito di leggere il capitolo. Sono contento che tu sia qui. Poteva andarmi molto peggio.»
«La cosa è reciproca.» Noah guardò il soffitto. Sentiva gli uomini parlare, pregare e cantare, i rumori echeggiavano nell’oscurità del braccio. Aveva sentito una tosse da raffreddore nelle vicinanze, ma non era riuscito a vedere chi fosse perché le celle erano separate da pareti. Formulò in automatico la diagnosi, sinusite.
«Sono qui da ventun anni. Non è una passeggiata, ma ci si abitua. La gente si abitua a tutto. Avvicina la mano.»
«Cosa?»
«Hai sentito bene. Avvicina la mano.»
«Perché?»
«Fallo e basta. Non ti faccio niente.»
Noah lasciò cadere la mano destra e sentì che Peach gli passava un sacchetto di carta.»
«Che c’è qui dentro?»
«Dentro cosa?»
Noah si spostò di fianco e guardò dentro il sacchetto, nella luce fioca che entrava dalla finestra. Era un kit di primo soccorso di fortuna con un rotolo di garza, un flaconcino di Betadine, filo interdentale e un grosso ago industriale, che luccicava nella semioscurità. L’ago era di contrabbando, una cosa che poteva costargli l’isolamento.
«Peach, perché mi hai dato questa roba? Mi vuoi incastrare?» chiese Noah.
«Non essere stupido.»
I pensieri si affollavano nella mente di Noah. Aveva ragione sulla corrente sotterranea.
Stava succedendo qualcosa. «Buonanotte, dottore.»