65
Noah, dopo
Noah non sapeva che cosa
avesse voluto dire Evesham quando aveva detto che lo stavano
aspettando, ma sicuramente non era una cosa positiva. Continuava a
seguire la guardia carceraria percorrendo il secondo livello del
Braccio C, lungo quasi ottanta metri, con due livelli di celle su
ciascun lato. Le celle erano piene, due detenuti per ogni cella, ed
erano chiuse a chiave a quell’ora, era quasi ora di spegnere le
luci. Noah continuava a guardare davanti a sé mentre passavano, con
lo sguardo fisso su Evesham, la cui corporatura massiccia metteva a
dura prova le cuciture della sua divisa scura con le spalline e il
distintivo di panno dorato e nero della polizia penitenziaria della
Pennsylvania.
I detenuti si avvicinarono
alle porte delle loro celle, appoggiando i gomiti sulle sbarre,
gridando ‘Salve, dottore’, ‘Ehi’ e un altro disse a gran voce
‘Dottore in visita!’ e risero tutti. Non era come in tv, con i
detenuti che gridavano cose luride come ‘carne fresca’, ma la
realtà era molto più sinistra. Noah sentiva agitarsi una corrente
sotterranea lungo il braccio mentre passava, come un moto ondoso
incessante sotto la superficie.
«Eccoci arrivati.»
Evesham si fermò davanti a una cella verso la fine del braccio,
dove il suo compagno di cella, più vecchio di lui, era disteso sul
letto più in basso e stava leggendo un vecchio libro in edizione
tascabile di Louis L’Amour, con le caviglie incrociate. L’uomo
aveva all’incirca settant’anni, era basso e magro, con dei sottili
capelli grigi, un naso dritto sul quale era appoggiato un paio di
occhiali bifocali deformati, e un sorriso cordiale, sebbene le
apparenze potessero ingannare in prigione. Nel carcere della contea
di Montgomery, la vera minaccia era rappresentata dai vecchi
malavitosi, che ordinavano ai più giovani di fare il lavoro
sporco.
«Entra e girati» disse
Evesham e Noah obbedì mentre la guardia carceraria apriva la cella
per poi togliergli le manette. Noah mise giù il materasso e le
lenzuola sul letto di sopra, ed Evesham chiuse a chiave la porta
prima di allontanarsi.
«Mi chiamo Noah Alderman» disse, e il vecchio si alzò in piedi, porgendogli
una mano avvizzita.
«E io sono Mike Smith, ma mi chiamano Peach perché
sono rugoso come un nocciolo di pesca.» Peach appoggiò un gomito nodoso sul telaio del
letto.
«Piacere, Peach.» Noah
srotolò il materasso, guardandosi intorno. La cella era grande poco
meno di due metri per quattro e le pareti erano fatte con dei
luridi blocchi di calcestruzzo bianco. In fondo, c’era una finestra
verticale lunga e sottile e sotto c’era la mensola di Peach, sulla
quale erano riposti prodotti da bagno, libri in formato tascabile
e, stranamente, un collage di ritagli di giornale di Tony
Bennett.
«Somigli al dottor Kildare, della tv. Sei abbastanza
vecchio da conoscere il dottor Kildare? Un bell’uomo. Un medico. Il
dottore Kildare.»
«Ah sì, il dottor Kildare.» Noah aveva capito che Peach era un tipo loquace.
Mise il suo kit da toilette su uno stretto ripiano di metallo
accanto a un gabinetto aperto e a un orinatoio.
«Sei arrivato tardi. In genere questa non è l’ora
degli arrivi. Ti hanno già detto quale lavoro ti hanno
assegnato?»
«No.» Noah aprì il
coprimaterasso e lo mise intorno al materasso.
«Ne devi prendere uno buono. Io lavoro nella bottega
pellame. Faccio gli stivali. È il migliore di tutti. C’è una lista
d’attesa. Le uniche persone che lavorano lì sono ergastolani.
Bisogna aspettare che muoia qualcuno perché si liberi un
posto.»
«Qual è un altro lavoro buono?» Noah mise il lenzuolo e il cicalino iniziò a
suonare, rimbombandogli nelle orecchie.
«Prova la lavanderia.»
Peach si distese di nuovo sul letto. «La sartoria fa schifo, la cucina fa schifo, la
falegnameria è decente. Un mio amico lavora lì. Può metterci una
parola buona. Conosce un po’ di persone.»
«Grazie.» Noah finì di
fare il letto, poi andò al lavandino, si spazzolò i denti e si
lavò. Era già andato in bagno prima che lo portassero in cella. La
mancanza di privacy era una delle cose che più odiava della
prigione. Sarebbe dovuto arrivare a un ‘punto di
accettazione’.
«Non parli molto tu.»
«Sono stanco.» Noah
salì sul suo letto, si distese e si cucì la bocca, in modalità
prigione. Improvvisamente suonò un altro cicalino e le luci si
spensero di colpo.
Peach bofonchiò.
«E che diamine, non ho manco finito
di leggere il capitolo. Sono contento che tu sia qui. Poteva
andarmi molto peggio.»
«La cosa è reciproca.»
Noah guardò il soffitto. Sentiva gli uomini parlare, pregare e
cantare, i rumori echeggiavano nell’oscurità del braccio. Aveva
sentito una tosse da raffreddore nelle vicinanze, ma non era
riuscito a vedere chi fosse perché le celle erano separate da
pareti. Formulò in automatico la diagnosi, sinusite.
«Sono qui da ventun anni. Non è una passeggiata, ma
ci si abitua. La gente si abitua a tutto. Avvicina la
mano.»
«Cosa?»
«Hai sentito bene. Avvicina la mano.»
«Perché?»
«Fallo e basta. Non ti faccio niente.»
Noah lasciò cadere la mano
destra e sentì che Peach gli passava un sacchetto di
carta.»
«Che c’è qui dentro?»
«Dentro cosa?»
Noah si spostò di fianco e
guardò dentro il sacchetto, nella luce fioca che entrava dalla
finestra. Era un kit di primo soccorso di fortuna con un rotolo di
garza, un flaconcino di Betadine, filo interdentale e un grosso ago
industriale, che luccicava nella semioscurità. L’ago era di
contrabbando, una cosa che poteva costargli l’isolamento.
«Peach, perché mi hai dato questa roba? Mi vuoi
incastrare?» chiese Noah.
«Non essere stupido.»
I pensieri si affollavano
nella mente di Noah. Aveva ragione sulla corrente
sotterranea.
Stava succedendo qualcosa.
«Buonanotte, dottore.»