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Noah, dopo
Noah sedeva ricurvo sul sedile dell’autobus, incatenato mani e piedi, il che rendeva impossibile stare seduti con la schiena dritta. Gli faceva male la schiena dopo il lungo tragitto in quella posizione, ma ignorò il dolore. L’autobus del dipartimento Penitenziario non era riscaldato, e alcuni finestrini erano aperti e fissi, lasciando entrare l’aria gelida e il fumo del gas di scarico. Era buio quando erano partiti dall’Istituto penitenziario di Stato di Camp Hill, che fungeva da centro di classificazione e valutazione per il sistema penitenziario della Pennsylvania. Era arrivato lì direttamente dal tribunale ed era stato rasato, spidocchiato, classificato e gli era stato dato un numero identificativo e un braccialetto con un codice a barre e un rilevatore gps. Era stato assegnato all’Istituto penitenziario di Stato di Graterford, che era il carcere di massima sicurezza più grande della Pennsylvania, al cui interno erano reclusi quattromila criminali, come lui.
Solo che lui era innocente.
Graterford occupava una superficie di svariate centinaia di ettari a circa cinquanta chilometri da Philadelphia, ed era stato costruito negli anni Venti del XX secolo, una delle prigioni più vecchie del sistema penitenziario. Aveva un tasso di sovraffollamento al centocinque percento, il secondo più alto dello Stato, ma il nuovo carcere, l’Istituto penitenziario di Stato di Phoenix, era già in costruzione sullo stesso terreno, indietro coi tempi e con costi lievitati che avevano sfiorato i quattrocento milioni di dollari. Noah conosceva le statistiche perché aveva letto la guida per i detenuti nella biblioteca di Camp Hill, indubbiamente l’unico detenuto ad avere fatto una cosa del genere.
Il suo unico obiettivo era sopravvivere, sebbene non sapesse per quanto. Non era ancora stata emessa la sentenza contro di lui e per il momento stava solo cercando di superare un altro giorno, sebbene non sapesse bene perché. A lui andava bene non conoscere il motivo, per ora. Era istinto. Ogni essere vivente combatteva per restare in vita. Le persone. Gli animali. Le piante. Le cellule. I virus. Gli allergeni. Si sentiva ridotto a uno stato primordiale, seguendo il suo unico istinto. La sopravvivenza.
Inspirò, e i fumi del gas di scarico lo nausearono, ma ignorò anche quello. Continuò a tenere la testa appoggiata al vetro, che era coperto da un reticolo di metallo, e guardò fuori mentre procedevano rumorosamente lungo l’autostrada. Li sorpassavano famiglie a bordo di suv e monovolume, riusciva a vedere i bambini allacciati nei loro seggiolini che guardavano video, i padri al volante con le braccia tese e le madri sul sedile del passeggero che guardavano facebook dai loro cellulari. Non permetteva a sé stesso di pensare a Maggie né a Caleb. Né ad Anna. E neppure a Ralph Spaccatutto.
Sull’autobus c’erano anche altri detenuti, tutti ricurvi in catene, che sedevano vicini al finestrino come lui, a una distanza sufficiente da evitare il contatto l’uno con l’altro. Nessuno di loro sembrava un novellino, dato che nessuno piangeva né parlava. Conoscevano tutti le regole non scritte, che avevano stabilito e comunicato con le azioni. Stai dalla tua parte. Non impicciarti. Non parlare del tuo caso con altri detenuti, altrimenti utilizzeranno le informazioni contro di te o le baratteranno per ridurre la propria pena. Soprattutto, trova i tuoi simili. C’era sicurezza nei numeri.
Noah sapeva che quello sarebbe stato il suo primo problema, dal momento che dubitava che ci sarebbero stati altri allergologi pediatrici a Graterford. Non aveva un gruppo al quale unirsi. Era un tizio bianco generico, ma non un nazionalista bianco. Non era nero, né ispanico, né asiatico, altri gruppi che si formavano automaticamente. Non era il membro di una gang di qualsiasi tipo, un altro gruppo automatico, non era un fanatico di Gesù né una ‘fidanzata’, una parola in gergo diffusa fra i detenuti che non c’era bisogno di spiegare. Era solo, e questo lo rendeva vulnerabile.
Noah continuò a guardare fuori dal finestrino. La sua esperienza all’Istituto correttivo della contea di Montgomery non l’aveva preparato per quello che lo aspettava perché finora era stato in un carcere di minima sicurezza. Praticamente l’asilo in confronto a Graterford, con la sua popolazione generale di assassini, spacciatori, piromani, violentatori, ladri, rapinatori, tossicodipendenti, schizofrenici e psicopatici. Graterford sarebbe stato il ‘periodo movimentato’ e non il ‘periodo tranquillo’ del carcere della contea di Montgomery. E Graterford ospitava l’unico braccio della morte dello Stato.
L’autobus entrò nel distretto di Skippack, il cui confine era indicato da un piccolo cartello verde, quindi lasciò la Route 73 per svoltare su un’anonima strada a una corsia in discesa. Portava a Graterford, e le enormi luci creavano un alone bianco luminoso come in uno stadio della Major League Baseball. Noah raddrizzò la schiena per vedere la prigione, e gli altri fecero altrettanto, sbattendo le palpebre per l’improvvisa luminosità dopo il lungo tragitto al buio. Noah si chiese se stessero pensando tutti la stessa cosa.
Questa è l’ultima volta che lo vedrò da fuori.
Graterford era un enorme conglomerato di edifici e Noah vedeva solo il complesso di uffici illuminato sul davanti perché l’intera prigione era circondata da una parete di cemento alta dieci metri, filo spinato pungente e torri di guardia con finestre dai vetri oscurati.
Arrivarono alla prigione e furono fatti scendere in fretta dall’autobus, strisciando i piedi come una fila di gobbi a causa delle catene. Fu ordinato loro di entrare in un atrio, dove furono liberati dalle catene, spogliati, lavati ed esaminati, poi gli fu chiesto di indossare una maglia arancione scuro con i bordi gialli e pantaloni larghi con pantofole da prigione bianche. Furono fotografati, ammanettati e fu consegnato loro un kit da toilette, materasso, coperta, lenzuola e asciugamani, poi furono divisi per bracci.
A Noah fu ordinato di andare con una corpulenta guardia carceraria in un’uniforme nera con una targhetta con su scritto evesham. Attraversarono monotoni corridoi a blocchi di calcestruzzo bianco. I neon emettevano un pallido tremolio e i pavimenti erano di cemento usurato. L’aria surriscaldata odorava di disinfettante e sporcizia, entrambi allo stesso tempo. Gli unici suoni erano il gracchiare della ricetrasmittente fissata al cinturone di Evesham e il tintinnare delle sue chiavi. Il lungo corridoio terminava in una porta reticolata chiusa a chiave, con sopra una scritta fatta con lo stencil, braccio c.
Evesham staccò l’anello delle chiavi. «Stia indietro, dottor Alderman» gli ordinò, preparandosi ad aprire la porta.
Noah obbedì.
Evesham si voltò verso di lui, poi disse sottovoce: «La stanno aspettando.»
Noah sbatté le palpebre, sorpreso. «Che cosa intende dire?»
Evesham non rispose, mentre apriva la porta.