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Il soffitto era una scacchiera di tasselli in polistirolo. Erano lì da trent’anni e li dimostravano tutti. Una volta bianchi e puliti, ora avevano le sembianze di un paesaggio desertico, giallo e incrinato. Li aveva scambiati proprio per quello, mentre veniva trascinato dentro e fuori dallo stato di coscienza durante quella prima notte, quando il suo cuore balbettava e incespicava pur di andare avanti. Ma ci era riuscito. Una notte tra la vita e la morte era diventato un weekend di incertezza che si era trasformato in una mattina di speranza seguita da un pomeriggio di sollievo. Ce l’aveva fatta.
Era sopravvissuto.
Un miracolo, aveva sentito dire ai dottori quando era ancora semicosciente. All’inizio non aveva compreso la precarietà della sua condizione. Non sapeva nemmeno perché si trovasse lì. I ricordi erano tornati inizialmente sottoforma di frammenti confusi, informi e insensati. La sua pressione sanguigna aveva continuato a salire fino a raggiungere dei valori normali, e al suo cervello arrivava un flusso stabile di ossigeno, il mosaico di suoni e visuali era stato ricostruito riabilitato e riordinato.
E quando comprese, quando seppe, il dolore tornò, e subito dopo lo sedarono perché le sue urla e i suoi lamenti spaventavano gli altri pazienti, e i movimenti impetuosi minacciavano di far aprire le sue numerose suture. Erano seguiti altri antidolorifici. Dolce, dolcissima sedazione. In quel momento era sveglio e vigile per la prima volta.
La vita era gialla e piena di crepe, perché poteva vedere solo i tasselli del soffitto, perché non poteva muovere la testa. Era infilata in un collare, che aveva bloccato il suo sguardo in avanti, limitando la sua visuale. Era troppo debole per mettersi seduto sul letto, quindi i tasselli del soffitto erano l’unica cosa che potesse fissare.
Non c’erano ancora stati visitatori, perché quello era il primo giorno in cui era completamente sveglio e non più sotto pesanti sedativi per la sua sicurezza personale. Aveva usato le ultime ore per pensare. Doveva mettere a punto una storia per spiegare perché era finito in ospedale. Al pensiero degli ufficiali di polizia, onesti e sinceri, che lo interrogavano al suo capezzale, si sentiva mancare. Il coraggio non era il suo forte.
Fino a quel momento il suono della tv gli aveva fatto compagnia. Per tutto il giorno davano delle sitcom americane doppiate, le stesse che andavano in onda da quando gli americani avevano bombardato la Serbia.
Se non altro aveva avuto le migliori cure. Le infermiere e i dottori sapevano che era un uomo importante. Sapevano che era un uomo influente (un uomo con ottimi contatti) che doveva essere accudito a dovere. Forse non sarebbe sopravvissuto quella prima notte terribile e i giorni a seguire se non gli avessero prestato un’attenzione speciale. Era un pensiero spaventoso.
La vita, pensò, era come un fiore: bellissima e delicata.
Dilas deglutì, e il suo monitor cardiaco mostrò un improvviso picco nel battito e nella pressione cardiaca. Era difficile non essere terrorizzati dalle ripercussioni che sarebbero derivate dalle sue spiegazioni; per giustificare la sua associazione con Rados e con la sua rete di attività criminali. Esattamente, per quale motivo si trovava in casa di un uomo ricercato? Ma quella era solo la sua prima reazione, perché si ricordava chiaramente la notte alla villa, le ragazze, il killer ungherese, gli spari, il momento di agonia seguito dal nulla.
Dilas aveva sentito dire che Rados era morto. L’organizzazione era stata mandata in rovina dall’ungherese. Si sarebbe dispersa. Sarebbe stata frammentata.
Dilas era sopravvissuto a tutto ciò. Era eccitato.
Sentì la sua porta che si apriva, e nella sua visione periferica appannata intravide la sagoma di un infermiere che era entrato nella stanza e che si avvicinava velocemente al monitor cardiaco. Si era attivato un allarme a causa dell’impennata del suo battito e della pressione cardiaca.
«Si sente bene?» chiese a Dilas.
Dilas si sentiva addosso lo sguardo dell’infermiere, anche se lui non poteva vederlo, quindi annuì in risposta e respirò, e le sue pulsazioni cominciarono a stabilizzarsi.
L’infermiere apportò delle modifiche al monitor e disse: «Cerchi di restare calmo.»
«Okay. Ci proverò.»
Si spostò sul letto e fece una smorfia.
«Sente dolore?» chiese l’infermiere.
Certo che lo sentiva. Dilas annuì. «Un po’.»
«Posso darle qualcosa per il dolore, se vuole.»
«Grazie.»
L’infermiere rimosse dalla flebo di soluzione salina la cannula infilata nel braccio di Dilas. «Nessun ago appuntito irrita in questo modo. Sono sicuro che ha avuto la sua buona dose di dolore.»
Dilas continuò ad annuire perché non voleva essere disturbato da inutili chiacchiere. Voleva solo altri antidolorifici e un po’ di tempo per pianificare.
«Cosa mi è successo?» chiese. «Non ricordo niente.»
Era un eccezionale bugiardo, lo sapeva. Tentò di girare la testa per guardare l’infermiere, ma il collare manteneva la sua visuale fissa su quegli irritanti tasselli del soffitto.
«Le hanno sparato» spiegò l’infermiere. «Ha cinque ferite d’arma da fuoco nel petto. È incredibilmente fortunato a essere ancora vivo.»
«Non mi sento fortunato al momento. Ma come faccio a essere vivo? Si tratta davvero di un miracolo?»
Il tono dell’infermiere era accomodante. Dilas non poteva vederne la faccia, ma se lo immaginò con un’aria accondiscendente. «Non esattamente. Lei ha una condizione molto rara chiamata destrocardia. Detto semplicemente: il suo cuore si trova nella parte destra del suo petto anziché nella parte sinistra. Se il suo cuore si fosse trovato nella posizione convenzionale, sarebbe morto all’istante.» L’infermiere rimosse l’ago. «Fatto.»
«Capisco» disse Dilas, cercando senza riuscirci di guardare in basso verso il suo torace bendato. «I proiettili sono stati estratti? Non sono ancora dentro di me, vero? Starò bene, giusto?»
Quando la flebo fu reinserita nella cannula l’infermiere disse: «Li hanno rimossi subito. A parte i danni ai tessuti e la perdita di sangue, lei è in ottime condizioni. La destrocardia è una cosa che ha dalla nascita, e guardando le sue annotazioni, ciononostante, è perfettamente in salute.»
Non hai combattuto in guerra, giusto? Rados lo aveva deriso perché era vero, e aveva detto una verità ancora più profonda: Dilas era debole ed era un codardo. Aveva un pensiero acuto e la lingua veloce, ma non aveva credenziali da macho a cui attingere all’interno di certi segmenti di popolazione. Fino a quel momento.
Gli avevano sparato, ma era sopravvissuto. Un miracolo.
Votate per Dilas. Votate per l’invincibilità.
Dilas si assicurò di non sorridere troppo, e chiese: «E la mia testa? Perché sono infilato in questa cosa?»
«È atterrato violentemente sul pavimento in pietra, e si sono incrinate due vertebre. Non c’è alcun danno alla sua spina dorsale, quindi non si preoccupi. Il collare serve soltanto a permettere alle ossa di guarire evitando ulteriori danni. Starà bene fisicamente, ma è difficile da elaborare. Cerchi di dormire un po’. Quando si sveglierà starà molto meglio.»
«Giusto. Può spegnere la tv, per favore?» chiese Dilas.
«Certo» disse l’infermiere, e un momento dopo la tv si ammutolì beatamente. Appoggiò il telecomando sul letto, vicino alla mano di Dilas. «Nel caso voglia accenderla di nuovo. Lo sollevi semplicemente e schiacci il tasto in alto a destra.»
«Grazie» disse Dilas, toccato da quel semplice atto di compassione.
L’infermiere disse ancora: «Passerò più tardi per controllarla» e lasciò la stanza.
Dilas restò disteso in silenzio per un momento, si sentiva stanco ma dopotutto non voleva dormire, era troppo vigile, quindi fece come gli aveva spiegato l’infermiere, sollevò il telecomando, trovò il tasto in alto a destra e riaccese la tv.
Dilas era felice.
Anche se gli avevano sparato, anche se era costretto a letto, anche se provava dolore, poteva ancora recitare la sua parte. Era qualcosa che Rados non era stato in grado di fare, e gli era costato caro. Aveva fatto l’errore di fidarsi dell’ungherese, chiunque fosse. Dilas non si era mai fidato dello straniero, e aveva pianificato di scoprire la vera identità dell’uomo. Aveva dei politici in debito con lui e dei poliziotti che aveva pagato, e molte altre persone utili che Rados aveva minacciato per conto suo. Queste ultime lo avrebbero ancora aiutato ora che Rados non c’era più? Ovviamente no, ma allora se ne sarebbero pentite perché tutti quei barbari senza leader ora avevano bisogno di un nuovo scopo, un nuovo imperatore da proteggere: un imperatore che aveva dimostrato di essere più duro di loro; persino più duro dello stesso Rados.
Tutto ciò che Dilas aveva sempre desiderato ora si sarebbe realizzato.
Voleva potere, voleva rispetto, voleva incutere paura.
Voleva anche vendetta. Voleva l’ungherese morto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa con il suo nuovo imminente e notevole potere per assicurarsene. La vendetta sarebbe stata sua.
Dilas stava sorridendo guardando una sitcom quando la porta si aprì.
Una figura apparve nell’angolo della sua visione periferica. Un uomo. Non l’infermiere. Qualcun altro.
Dei passi cauti si avvicinarono al suo letto.
La figura si fermò prima di entrare nella visuale di Dilas, e un uomo chiese: «Come si sente?»
La voce era calma. L’accento difficile da determinare.
Irritato da un’altra intrusione, Dilas rispose con un secco «Sto bene.»
L’uomo (un dottore dal camice bianco che Dilas aveva visto di sfuggita) superò il letto e si avvicinò al monitor cardiaco.
Con le spalle rivolte a Dilas, il dottore disse: «Lei è un uomo davvero fortunato.»
«Sì» disse Dilas, sentendosi inorgoglito. «Suppongo di essere benedetto.»
«Sì,» ripeté l’uomo «benedetto.»
Il camice bianco passò accanto a Dilas, e l’uomo si mise vicino alla testata del letto, dove Dilas non riusciva a vederlo. Sentì il fruscio della carta mentre le sue annotazioni venivano controllate.
Il dottore disse: «Le darò qualcosa per il dolore.»
«Mi è già stata fatta un’iniezione.»
Il giovane dottore rimase in silenzio.
Dilas lo sentì riporre le annotazioni nella fessura in fondo al letto e sentì che il dottore era lì in piedi, una traccia sfocata nella coda dell’occhio. Faceva sentire Dilas a disagio. Un pensiero orribile gli fece improvvisamente accelerare il cuore per il terrore, ma lo liquidò come un attacco di codardia quando il dottore lasciò la stanza.
Avrebbe chiesto la protezione della polizia, aveva deciso. Meglio non rischiare visto che quel verme era ancora lì fuori. Almeno fino a quando non sarebbe stato al comando dei bruti di Rados, e in seguito, della nazione intera. Sorrise, pensando al suo futuro glorioso.
Votate per Dilas. Votate per l’invincibilità.
Il giovane dottore era nuovo e insicuro, ma capiva il protocollo e lasciò la stanza per controllare chi avesse somministrato al paziente l’antidolorifico senza aggiornare le annotazioni. Sembrava non fosse stato nessuno degli infermieri, e gli credeva perché erano tanto onesti quanto erano dei gran lavoratori. Il paziente probabilmente aveva sognato tutto l’accaduto. Non era sorprendente. I sedativi potenti potevano confondere la distinzione tra immaginazione e realtà. Il giovane dottore ne aveva spesso avuto prova con i diversi psicofarmaci che alteravano la mente, che risultavano facilmente ‘persi’ dalla farmacia dell’ospedale.
Quando il dottore tornò per somministrare un po’ di antidolorifico reale, Dilas era morto a causa di un forte arresto cardiaco. Aveva lottato coraggiosamente, avrebbero detto in seguito, ma non stupiva che fosse deceduto a causa delle gravi ferite riportate.
Forse avrebbe potuto essere salvato se il tentativo del suo monitor di far scattare l’allarme non fosse fallito quando l’elettrocardiogramma era diventato piatto. Un’indagine interna aveva concluso che la macchina aveva avuto un guasto tecnico. Inaspettato e imprevisto, ma queste cose accadono di tanto in tanto.
La colpa non era di nessuno.