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«Signori,» disse Rados «questo è il mio nuovo collaboratore, il signor Bartha.»

Passò qualche minuto a presentare a Victor gli uomini in giacca e cravatta, e Victor fu sorpreso dall’interesse che dimostravano nei suoi confronti. Forse perché, come loro, indossava un completo, il che era qualcosa di insolito tra la banda di Rados. Dopo alcuni minuti di convenevoli, Rados prese in disparte uno degli uomini in giacca e cravatta, e si allontanarono per conversare.

Rados presentò l’uomo in completo: «Questo è il signor Dilas, un giorno diventerà il presidente della Serbia.» Dilas rise come se fosse una grossa battuta, ma quella risata era solo di facciata: voleva e credeva che un giorno avrebbe davvero governato il Paese. «A Milan piace dire cose del genere per farmi sembrare uno sciocco.»

«Non mi permetterei» disse Rados, sorridendo a sua volta. «Perché quando sarai presidente la cosa che ti divertirà di più sarà usare tutto il tuo nuovo potere per vendicarti.» Contrasse i bicipiti per enfatizzare il concetto. Dilas sogghignò.

«Non mi scorderò dei miei amici, Milan,» assicurò Dilas, con un sorrisetto «quando sarò seduto su un trono dorato.»

«Dorato, forse» disse Rados. «Ma sarà un trono fatto di ossa e lucidato con il sangue.»

«Stai facendo inutilmente il drammatico, Milan» rispose Dilas. «Le mie mani sono pulite.»

Mostrò i suoi palmi: rosei e morbidi.

Rados strofinò i suoi. «Le tue sono pulite perché le mie sono davvero molto sporche.»

«Un’intesa che ben si adatta ai nostri talenti reciproci, ricordiamocelo.»

Rados piegò la testa con i palmi premuti insieme davanti a sé (un gesto scherzoso o di presa in giro, era difficile capire quale fosse dei due). «Sono il tuo umile servo, mio sovrano.»

Dilas sorrise come se l’avesse presa per una battuta, ma il modo in cui deglutì pesantemente in seguito, fece intendere a Victor che il politico faceva solo finta che lui e Rados fossero in qualche modo su un piano di parità. Con o senza il completo, entrambi gli uomini sapevano che quella era solo una patina di civiltà che poteva essere rimossa in qualsiasi momento. In quel luogo, l’unica cosa che contava era la forza.

«Torno tra un momento» disse Rados, lasciando Dilas e Victor da soli.

Dilas era giovane per essere un politico. Era sulla trentina, ma le sue guance lisce e paffute lo facevano sembrare più giovane. Il suo abito non gli calzava bene. Era alto e magro, con le spalle strette e una vita ancora più stretta. Il vestito era costoso, ma era merce da negozio, di marca, e la taglia generica, anche con un taglio aderente, era troppo grande per la larghezza di Dilas, e al tempo stesso troppo corto per la sua altezza. Aveva abbastanza soldi per pagare l’etichetta costosa, ma non sapeva ancora che avrebbe speso meglio il suo denaro per un abito su misura.

I suoi capelli erano scuri e ricci, ma erano tagliati abbastanza corti da non spuntare dalla testa. Indossava degli occhiali dalla montatura scura e rettangolare. Avevano il logo di una marca sulle aste. Le scarpe erano tirate a lucido e avevano delle punte allungate che facevano somigliare i suoi piedi a quelli di un clown.

«Non sembri uno dei soliti uomini di Rados» disse Dilas rivolgendosi a Victor.

«Non ne so nulla dei suoi soliti uomini.»

Dilas ci pensò su. «Ne ha persi alcuni di recente. Magari vuole ampliare il patrimonio genetico. Darwinismo criminale, si potrebbe dire.»

La sua voce era bassa, ma parlava in modo frettoloso e insicuro. Credeva in ciò che diceva ma non era convinto che anche le altre persone potessero crederci.

Rados ritornò, si scusò con Dilas e allontanò Victor dalla folla, così che potessero avere un po’ di privacy.

«Cosa ne pensi del mio club?» chiese Rados.

«Mi aspettavo della musica. Magari qualche luce stroboscopica.»

Rados fece un sorrisetto e guardò in basso la piscina vuota.

«Questo è il mio Colosseo. Forse non così grande, ma in questo modo si ha una visuale migliore.»

La piscina vuota un tempo era bianca, ma le mattonelle si erano scurite con il lerciume ed erano segnate in molti punti con il sangue: strisciate di sangue, marroni e sfaldate; chiazze più recenti e segni color ruggine; schizzi freschi, intensi e luccicanti sotto le luci alogene.

Non c’era nient’altro nella piscina a parte la sabbia che era stata usata per assorbire lo sporco prima di essere spazzata negli angoli, dove formava delle dune scure, e che si era rappresa nelle scanalature delle mattonelle.

«Niente armi,» spiegò Rados «e niente scarpe. Oltre a questo non ci sono regole.»

Victor annuì immaginandosi due uomini che si prendevano a cazzotti in un bagno di sangue in fondo alla piscina. Senza regole ci sarebbero stati colpi all’inguine, morsi e trucchi. Non ci sarebbe stato nulla di sportivo.

«Non fumo e non prendo narcotici» disse Rados. «La violenza è la mia unica droga.»

Arrivò un altro uomo. Victor non lo vide e non lo sentì all’inizio a causa della folla e del rumore, ma notò la reazione di chi lo aveva scorto. Le espressioni mutarono. Le voci diventarono sommesse.

Era Zoca. I suoi passi erano impacciati, quasi strascicati. La sua faccia era un disastro. Era gonfia attorno a entrambi gli occhi e alla bocca. La guancia destra era graffiata. Aveva dei punti su un sopracciglio.

«Suppongo che sia uno dei combattenti» disse Victor.

Rados sorrise. «È caduto.»

Zoca non si avvicinò, ma fece un cenno a Rados, il quale mosse la testa per ricambiare il saluto. Nonostante la faccia malmessa, Victor si accorse che lo osservava con curiosità mista a disprezzo. Zoca distolse lo sguardo e si trascinò per raggiungere alcuni degli altri uomini di Rados. Nessuno gli strinse la mano, lo abbracciò o gli diede una pacca. Sembrava che ogni movimento gli causasse dolore, e uno schiaffo di benvenuto sulla spalla gli avrebbe inflitto un tormento insopportabile.

«Fiducia» disse Victor, continuando a guardare Zoca.

Rados seguì il suo sguardo. «Quelli che mi dimostrano che la mia fiducia in loro è stata malriposta, hanno la tendenza a... cadere. Ma in seguito il loro equilibrio tende a migliorare drasticamente. Solo in rare circostanze succede che questa nuova base solida si riveli instabile.»

«E a quel punto cadono per la seconda volta?»

«Sì,» rispose Rados «succede. Ma con la differenza che la seconda volta non si rialzano.»

Victor guardava i movimenti lenti di Zoca e l’umile linguaggio del corpo. Non sembrava l’uomo duro e spietato che aveva terrorizzato le donne nel deposito.

«Il cadere produce lealtà?» chiese Victor.

«Non saprei» disse Rados. «Non posso vedere dentro i cuori dei miei uomini e conoscere la loro vera natura. Ma penso che si impari solo attraverso i nostri sbagli. Penso anche che chi non impara dal primo sbaglio, non imparerà mai.»

«Ognuno merita una seconda opportunità.»

«E tu che mi dici?» chiese a Victor. «Quante seconde possibilità ti sono state date?»

«Ho avuto la mia parte.»

«Ma quante seconde possibilità hai dato?»

Victor rimase in silenzio.

Rados sorrise della mancanza di risposta. «Troviamo un posto migliore. I combattimenti stanno per iniziare» disse.

«Quando termina un incontro?» chiese Victor.

«Quando il vincitore decide che il suo avversario ne ha avuto abbastanza. Un knockout o una sottomissione, di solito.»

«Vittime?»

«Se siamo fortunati» disse Rados, ed era difficile capire se fosse serio o stesse scherzando. «Pochi combattimenti finiscono in quel modo comunque. La maggior parte dimostra pietà prima di arrivare a quel punto.»

«Ma non tutti?»

«No, non tutti» disse Rados.

«Quando iniziano i combattimenti?» chiese Victor.

«Presto. Prima voglio che tu sappia alcune cose. Ci sono certe cose che valuto» spiegò Rados. «La forza d’animo, ovviamente. Un uomo che non sa cavarsela da solo non mi serve. Intelligenza... non tutti i miei uomini ne hanno, ma quelli che la possiedono stanno al mio fianco. La forza di volontà conta più delle altre due. Confucio diceva: ‘Non è la caduta che conta ma come ci rialziamo.’ Ma ancora più importante della volontà è la lealtà, perché senza di essa non siamo altro che barbari. L’homo sapiens è diventato la forza dominante di questo pianeta non esercitando il potere individuale, ma lavorando insieme per il bene comune. Abbiamo mostrato la lealtà alla nostra gente. Mi aspetto lo stesso dai miei uomini. Mi aspetto che mettano da parte il loro volere e i loro bisogni personali per i bisogni della nostra tribù. Allora, e solo allora, li ricompenserò con una quantità smisurata di ricchezza e donne, perché sono generoso. E se la loro lealtà si dimostrasse fasulla... allora la mia generosità si trasformerebbe in collera, e io so essere esattamente tanto crudele quanto so essere gentile.»

«Mi sembra un trattamento equo» disse Victor.

Rados lo osservò. «Tu non hai paura di me, vero?»

Victor non rispose. Non era sicuro di cosa Rados volesse sentirsi dire.

Il serbo disse: «La paura è qualcosa di fisico. Ha un suo odore particolare e non è necessario avere un fiuto da cane per rilevarla. Il tanfo della paura è quasi dolce. Mi piace. Ma tu non ne emani. Perché? Perché non riesco a sentire l’odore della tua paura?»

«Sarà il dopobarba.»

La faccia di Rados non mutò. «Ho a che fare con il peggio dell’umanità, con i più violenti e forti. Uomini che si comportano come se niente li spaventasse, come se fosse il mondo a doverli temere... ma anche da quel genere di uomini io riesco a sentire l’odore della paura. Anche se loro sono troppo stupidi e arroganti per conoscere la paura, i loro corpi non lo sono. La paura è lì. Trasuda dai loro pori. Non possono fermarla perché i loro corpi sono consapevoli di trovarsi di fronte al diavolo.»

Victor rimase in silenzio per qualche istante. Non credeva che Rados potesse sentire l’odore della paura, ma credeva che Rados ci credesse. Sono molti i segnali che indicano che una persona ha paura, e Victor li conosceva tutti: modificare la posizione dei piedi, creare distanza, una postura difensiva, deglutire, sudare, pupille dilatate, rossore al viso. Rados poteva anche pensare di riuscire a sentire l’odore della paura, ma si illudeva, aveva trasformato un’abilità innata di leggere il linguaggio del corpo in un potere sovrannaturale.

Le mani di Victor erano rilassate lungo i fianchi. Incurvò leggermente le dita, come se stesse per chiuderle in due pugni. Gli occhi di Rados si illuminarono.

«Ah,» disse con un profondo respiro «ora riesco a sentirla. Sembra che tu sia umano, dopotutto.»

«Sembra deluso.»

Rados scosse la testa. «No, non deluso, ma ammetto di essere sollevato. Un diavolo in città è più che sufficiente.» Il brusio della folla si acquietò diventando un sussurro, e Rados controllò l’orologio. «Ah, è l’ora del primo combattimento.»

Victor capì dal tono di Rados cosa stava per accadere, ancora prima che il serbo dicesse: «Togliti le scarpe.»

«Non combatterò» disse Victor.

«Perché non sei in grado o perché non vuoi? Perché di un uomo che non sa usare i suoi pugni non me ne faccio niente.»

«Non mi ha assunto per essere uno sgherro o un intrattenitore.»

«Ti ho assunto per essere qualsiasi cosa io decida. Stasera, tu sei un gladiatore.»

Victor non aveva bisogno di guardarsi intorno per sapere che gli uomini di Rados erano a distanza ravvicinata e stavano prestando attenzione a ogni singola parola che il loro capo pronunciava, e alla reazione di Victor.

Se si fosse rifiutato di combattere, non poteva aspettarsi di uscire dall’edificio tutto intero. Anche se fossero stati tutti disarmati, non poteva affrontare così tanti avversari.

Era molto meglio combattere uno contro uno in una parvenza di competizione leale, piuttosto che affrontarne una dozzina senza quella parvenza.

«Be’?» chiese Rados.

Victor si slacciò le scarpe, una alla volta, prima di toglierle.

«La tua riluttanza mi delude.»

Seguirono le calze. Il pavimento piastrellato era freddo sotto ai piedi nudi di Victor. Non rispose alla provocazione di Rados.

«Contro chi combatterò?» chiese Victor, togliendosi la giacca.

«Dipende cosa intendi» disse Rados. «In senso esistenziale? Quando combattiamo, il vero avversario siamo sempre noi stessi. Ma fisicamente, combatterai contro la Bestia.»