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Victor si trovava a Belgrado da cinque giorni quando contattò Banik. Gli inviò un messaggio da un tablet di seconda mano che aveva comprato da un banco dei pegni, utilizzando la connessione Wi-Fi gratuita della stazione ferroviaria. L’account di posta era usato solo per contattare l’uomo dell’MI6, e veniva fatto rimbalzare due volte intorno al mondo attraverso numerosi altri account con degli script di inoltro preimpostati, avvalendosi di server di reindirizzamento anonimo, per nasconderne l’origine. Era quasi impossibile nascondere le comunicazioni elettroniche ai supercomputer delle agenzie di spionaggio di tutto il mondo, ma le informazioni per essere utili dovevano anche essere operanti. I codici prestabiliti che Victor utilizzava dovevano prima essere risolti perché un messaggio fosse considerato degno di attenzione, e nel momento in cui fosse stato rintracciato alla fonte, Victor sarebbe già sparito da tempo.
L’email criptata inviata a Banik diceva che Victor accettava l’incarico e che sarebbe entrato nel vivo dei preparativi. Avere un vantaggio non guastava, e ora che era armato, con il suo rifugio e la borsa da viaggio pronta, era quasi la verità.
Il porto di Belgrado era posizionato vicino al ponte di Pancevo, nel centro città, all’ombra della fortezza in cima alle colline. Come la città stessa, il porto era piccolo e compatto, e si estendeva per circa un chilometro lungo la riva meridionale del Danubio. Ciononostante, all’interno dei suoi confini, ospitava duecentomila metri quadrati di spazio per il deposito, e il triplo dello spazio era dedicato allo stoccaggio esterno per il rifornimento di navi, barche e chiatte che andavano e venivano tutto l’anno.
Nel dossier su Rados dell’MI6 era riportato che presumibilmente egli possedeva uno dei magazzini, sebbene il suo nome non apparisse in nessuna delle scartoffie. Un’impresa commerciale in Croazia deteneva ufficialmente il contratto di locazione, e pagava le spese per l’utilizzo delle attrezzature portuali. Il nome di Rados non figurava nella lista dei dirigenti o degli azionisti della società di comodo croata, ma il suo braccio destro, Ilija Zoca, era registrato come direttore finanziario.
Victor uscì alle 9:00 di sera. Ci volevano trenta minuti per raggiungere le banchine, che sarebbero diventati novanta tenendo conto della contro sorveglianza, il che gli lasciava uno spazio di altri novanta minuti per prendere posizione e prepararsi. Era un lasso di tempo più che sufficiente considerando i sistemi di sicurezza previsti. Aveva a che fare con criminali e guardie civili, non professionisti.
Le banchine erano popolate ventiquattro ore su ventiquattro, ma meno durante la notte. Quindi per non sembrare fuori posto mentre si avvicinava all’area, indossava una salopette blu e un elmetto che aveva acquistato all’inizio della settimana. Un giubbotto catarifrangente avrebbe arricchito il suo travestimento, ma avrebbe reso più problematico allontanarsi senza essere visto.
Non aveva nessun pass e nessun documento d’identificazione, ma la mancanza di credenziali non lo preoccupava. All’interno del porto operavano molte imprese, e inoltre c’era una variazione continua dei membri degli equipaggi e degli appaltatori. Le facce non familiari erano comuni come quelle familiari. I lavoratori portuali regolari non avevano alcuna ragione di mettere in dubbio la presenza degli altri, e le guardie di sicurezza erano lì per scoraggiare gli atti criminali, non per controllare i documenti di identità. Chiunque mantenesse un atteggiamento corretto aveva il diritto di trovarsi lì.
Victor portava con sé un blocco per appunti come difesa supplementare. Era un’arma psicologica, gli conferiva un’aria di autorità e allo stesso tempo distoglieva l’attenzione dalla borsa, che altrimenti sarebbe sembrata fuori luogo. Il primo pensiero di qualsiasi osservatore sarebbe stato: Cosa sta controllando? E non: Cosa sta trasportando? E in seguito sarebbe stato: Hai visto il tizio con il blocco per appunti? E non: Hai visto il tizio con la borsa?
La prevenzione al posto della cura, e funzionò. Nessuno gli chiese di mostrare documenti di identità o tentò di chiacchierare, non fu nemmeno degnato di una seconda occhiata. Sembrava occupato e importante, e questo era sufficiente.
Era semplice entrare nel magazzino. Non era una fortezza, e la sua sicurezza era affidata a quella portuale, la quale era elementare anche per gli standard civili. L’edificio era moderno e ben costruito, equipaggiato con un certo numero di videocamere TVCC, ma per coprire l’intera struttura ne sarebbero servite almeno il doppio. Nella migliore delle ipotesi erano lì solo per far scena. Probabilmente non stavano nemmeno registrando.
Il fatto che la struttura fosse nuova e solida significava che i tubi di scarico erano in acciaio zincato e imbullonati alla perfezione, mentre le mura erano in acciaio corrugato. La costruzione era adatta per arrampicarsi; Victor scelse una zona non coperta dalle telecamere che dava sul fiume, in cui le possibilità di essere avvistato erano remote. Fu sul tetto in meno di due minuti.
Il tetto era inclinato, ma la pendenza non era così ripida da impedire il movimento. Era fatto di policarbonato trasparente per permettere alla luce del sole di oltrepassarlo fornendo illuminazione durante il giorno. Il policarbonato non era limpido, quindi le persone all’interno difficilmente sarebbero riuscite a distinguere la sua figura contro il cielo notturno. Una porta in acciaio inossidabile forniva l’accesso alle varie unità dell’impianto di condizionamento, agli sfiati e alle antenne che punteggiavano il tetto. La serratura era di buona qualità, e forzarla richiese a Victor una quantità di tempo maggiore rispetto a quello impiegato per arrampicarsi.
Non era presente nessun allarme, quindi scivolò all’interno. Si ritrovò su una passerella in metallo, sospesa sopra al pavimento del magazzino sottostante. Era collegata a una serie di altre passerelle e scale che si intersecavano nello spazio, rendendo possibile l’accesso al tetto e agli uffici del piano rialzato.
Victor si tolse le scarpe prima di andare oltre. Anche camminando con prudenza, l’ampio spazio interno avrebbe fatto riecheggiare il rumore dei passi sul metallo delle passerelle. Non c’era praticamente alcun rumore di fondo per mascherare il suono, e non c’era nessuna copertura sulle passerelle, chiunque avesse guardato in alto lo avrebbe sicuramente individuato.
In ogni caso non lo avrebbe visto nessuno, e nessuna telecamera lo avrebbe ripreso, perché il magazzino era vuoto. Nessuna droga era conservata lì, e non c’erano prodotti legali per fornire un’eventuale copertura. Non c’erano lavoratori o guardie di sicurezza e nemmeno materiale da ufficio.
In qualunque modo Rados gestisse il suo business, non lo faceva da lì.
Il nome Zoca appariva anche negli atti di proprietà di un possedimento appena fuori città. Il deposito rottami, o sfasciacarrozze come chiariva l’insegna, occupava un triangolo di terra: nel punto a nord confluiva nell’attività di un concessionario di automobili usate, mentre a ovest giacevano delle rotaie.
Il deposito rottami era circondato da una rete metallica di acciaio inossidabile, alta circa sei metri, con dei pali distribuiti a una distanza di circa un metro l’uno dall’altro. La sommità di ogni palo era piegata verso l’esterno con un’inclinazione di quarantacinque gradi, e suddivisa in due spuntoni. Tra gli spuntoni erano appese delle spirali di filo spinato, zincate e taglienti. Le porzioni di rete che si affacciavano sulle strade circostanti erano rinforzate con una serie disordinata di lamiere di ferro ondulato, imbullonate, saldate, bloccate e incastrate insieme per impedire ai passanti di vedere all’interno. Disseminate su tutta la composizione, si trovavano delle occasionali lastre di compensato, presumibilmente nei punti in cui non c’erano abbastanza lamiere di ferro ondulato a portata di mano, oppure per riempire gli spazi nel momento in cui le lastre di ferro originarie erano diventate troppo arrugginite e piene di buchi per servire al loro scopo.
Alcuni cartelloni pubblicizzavano il commercio di vecchie auto, elettrodomestici e altri scarti, come metodo per fare soldi facili. Su richiesta erano disponibili anche parti di ricambio per veicoli. Era difficile sapere se l’attività fosse gestita per trarne del profitto, come facciata o persino come base operativa. Il crimine organizzato aveva molte esigenze che un posto come quello poteva soddisfare.
Il deposito rottami era un’enorme e brutta rovina situata lungo il fiume, che lo nascondeva dietro a torri fatte di scheletri di macchine arrugginite, cubi schiacciati che un tempo erano auto e un mucchio di parti irriconoscibili.
Il concessionario era operativo solo in orario d’ufficio, quindi Victor attese l’imbrunire per dare un’occhiata. A differenza del magazzino, protetto dall’intera sicurezza portuale, lì non c’era alcuna protezione. Non c’era nessuno che facesse la guardia notturna, nessuna telecamera TVCC e nemmeno cani da guardia. Il compito di tenere alla larga gli intrusi era lasciato solo alla recinzione.
Victor trovò il fatto interessante.
La rete metallica che circondava il deposito rottami era ricoperta da spirali di filo spinato. Una barriera formidabile per le persone comuni, ma niente che Victor non avesse scalato facilmente una dozzina di altre volte. Una volta si era persino arrampicato con le mani legate da fascette di plastica. Lanciò in alto un vecchio tappeto per coprire il filo spinato e si arrampicò lungo la rete, usando uno dei pali come supporto.
Scalò la barriera con un solo breve incremento del battito cardiaco, e attese accovacciato dall’altra parte per permettere ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. La luce ambientale era scarsa per poter penetrare tra le ombre dell’alta rete e l’elevato cumulo di rottami.
La mancanza di sicurezza poteva significare che non c’era niente che valesse la pena rubare, sebbene la ferraglia avesse chiaramente abbastanza valore commerciale, altrimenti l’attività avrebbe cessato di esistere. Oppure poteva significare che i ladri locali sapevano chi fosse il proprietario del posto, e qualsiasi cosa potesse essere rubata non avrebbe compensato la collera che si sarebbe scatenata. Ma poteva anche significare che ciò che accadeva lì non doveva essere registrato dalle telecamere TVCC o intravisto da nessuno eccetto i membri della banda di Rados.
Non c’era alcun segno di attività umana, ma Victor si prese comunque il suo tempo. Avanzò lentamente attraversando l’area, facendo attenzione a dove posava i piedi, attento a non spostare nulla che potesse rivelare la sua presenza. Si sentì in lontananza il suono di una sirena mentre una chiatta passava lungo il fiume.
L’aria puzzava di ferro, di olio motore e di qualcos’altro. Qualcosa di organico. Non era difficile immaginare rivali schiacciati come cubi e seppelliti sotto la torre di macchine. Victor si immaginò i ratti che si muovevano freneticamente, invisibili ai suoi occhi, ma che lo guardavano attraverso l’oscurità.
Sentieri tortuosi giravano intorno alle montagne fatte di carcasse di auto e di ferraglia. Un mucchio era formato da quelle che sembravano migliaia di armi da fuoco, probabilmente resti delle guerre. Per la maggior parte erano fucili automatici abbandonati o raccolti molto tempo prima durante gli armistizi. Anche se non fossero stati disattivati, ormai erano inutilizzabili. Erano stati lasciati esposti alle intemperie per anni. Il metallo o la lega si erano corrosi. Il legno si era deformato o era marcito. Erano probabilmente pieni per metà di acqua e sporco. Alcune parti sicuramente mancavano.
Al centro del cortile c’era un ufficio prefabbricato della grandezza di un grande caravan. Era sostenuto da ruote bloccate e pali, a mezzo metro da terra, con alcuni scalini di alluminio che conducevano a un’unica porta. C’erano due piccole finestre su ognuno dei suoi lunghi lati. Nelle vicinanze si trovavano un paio di bagni chimici, e una fila di tre container da trasporto.
Victor provò ad aprire la porta dell’ufficio. Era chiusa, come prevedibile, ma non sarebbe stata una sorpresa nemmeno trovarla aperta, vista la mancanza di altre misure di sicurezza. La serratura era basilare e sopportò dieci secondi di rastrellatura dei cilindri prima di aprirsi con un clic.
All’interno la cabina non offriva nulla che Victor non si aspettasse. C’erano un paio di scrivanie dotate di telefoni, computer e sedie, schedari, un cucinino e un calendario sul muro in cui figuravano donne in topless e macchine sportive. Si guardò intorno con una piccola torcia. Aveva usato una super colla per attaccare un foglio di acetato rosso sulla lente, in modo da cambiare il colore della luce e conservare la sua visuale notturna.
I computer erano stati spenti e lasciati incustoditi. Rados non compariva in nessuno dei registri della compagnia, quindi Victor non si aspettava di trovare il suo nome su un qualunque file elettronico o su qualche copia cartacea. Non si aspettava in alcun modo di scoprire la sua posizione, ma voleva esplorare ogni possibilità, mentre raccoglieva informazioni sull’organizzazione di Rados. Controllò i cassetti delle scrivanie e la scatola contenente i soldi per le piccole spese, scorrendo ricevute e documenti. Guardò negli schedari. Trovò ordini di acquisto, fatture, lettere e moduli per le tasse, ma niente che gli potesse servire. Il concessionario della sfasciacarrozze e degli scarti di metallo era legale e redditizio. Se lo usavano per fini illeciti, li tenevano ben nascosti e privi di documentazione.
Scansionò rapidamente il calendario con la torcia. Oltre agli ovvi scopi stuzzicanti, era usato per segnare date importanti; delle puntine da disegno tenevano insieme pezzi di carta e biglietti. C’erano annotazioni relative a consegne e ordini, e alcune erano segnate con una lettera Z scarabocchiata, all’incirca ogni settimana, con indicata una somma di denaro e un orario, sempre di sera, più o meno dalle 9:00 a mezzanotte.
L’ingresso successivo era previsto per la notte seguente.
Victor allontanò la torcia e rimase in ascolto. Non sentì alcun veicolo in avvicinamento né rumore di passi, ma non poteva permettersi di trattenersi ancora. Avrebbe voluto nascondere un dispositivo di registrazione, ma Georg non era riuscita a procurarglielo. Avrebbe dovuto accontentarsi del microfono parabolico.
Sgusciò fuori dall’ufficio e utilizzò i suoi attrezzi da scasso per richiudere la porta. Nulla indicava che qualcuno fosse nell’edificio o che vi stesse entrando. Avrebbe sentito lo stridere del cancello che si apriva molto prima di doversi nascondere.
Tornò verso la recinzione.
Rados restava nascosto perché non aveva bisogno di esporsi. I suoi affari, amministrati dai suoi uomini fedeli e diretti da Zoca, crescevano anno dopo anno, efficienti e gestiti senza opposizioni, fruttando a Rados una fortuna. Lui era la figura di rappresentanza, e doveva la sua reputazione e il timore suscitato dal suo nome alla sua organizzazione, ma non era coinvolto nelle operazioni giornaliere. Altri se ne occupavano al suo posto. Tutto si svolgeva senza problemi.
Ma cosa sarebbe successo se ci fossero stati dei problemi...?