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Si accorse che stava accadendo qualcosa. Era stata svegliata da diversi rumori (voci, movimenti), ma sapeva che era meglio restare nella sua stanza e non indagare. La sopravvivenza dipendeva dal non essere notata e dal non causare problemi.

Ma in qualche modo doveva ottenere delle informazioni. Doveva scoprire qualsiasi cosa potesse essere utile all’uomo che l’avrebbe aiutata a fuggire da quel posto. Doveva scoprire qualcosa riguardante Rados: dove si trovava, dove sarebbe andato, o qualcuno che potesse saperlo.

Era difficile potendo parlare solo con le altre ragazze rapite, la maggior parte delle quali sapevano meno di lei. Gli uomini di Rados le davano solo ordini (fai questo, vai lì, preparati, lavati), e nient’altro. Ma lei ascoltava ogni volta che poteva, prestando attenzione a ogni parola che si scambiavano. Supponevano che lei conoscesse solo qualche parola in serbo. Sottostimavano ciò che sapeva e ciò che era disposta a fare.

Quando il rumore si placò, si fece la doccia nel bagno comune e si vestì. Quando uscì non c’era traccia delle altre ragazze, ma in cucina trovò il goffo ragazzo con l’acne.

Era più un custode che una guardia, e aveva compiti domestici come cambiare le lampadine, cucinare e pulire. Non parlava molto, nemmeno con Zoca o con gli altri uomini, faceva quello che gli ordinavano senza discutere o lamentarsi. Non parlava con lei o con le altre donne a meno che non fosse costretto. Non tentava mai di fare conversazione.

Quando entrò, lui evitò il contatto visivo. Capiva che era diverso dagli altri uomini, non era ancora crudele come loro.

In ogni caso lo detestava come gli altri, perché sebbene non fosse cattivo come gli altri, aspirava a diventarlo. Per il momento comunque, aveva una parvenza di moralità, ed era ancora debole e immaturo. E questo poteva aiutarla.

Aveva un’idea.

Si accinse a prepararsi un caffè istantaneo, riempì il bollitore con l’acqua e lo mise sul fuoco. Attese che bollisse emettendo il fischio, poi lo versò nella tazza che aveva preparato, e ne fece schizzare un po’ sulla sua mano.

«Ahi!» urlò.

Iniziò a imprecare facendo delle smorfie e sfregandosi la mano, esaminando la porzione di pelle visibilmente rossa e scottata.

«Stai bene?» le chiese.

«No, mi sono bruciata.»

«Mettila subito sotto l’acqua fredda.»

Si precipitò verso il lavandino e tenne la mano sotto il getto d’acqua, gelato e calmante.

«Meglio?» chiese lui.

«Non proprio.»

«Vado a prendere il kit di pronto soccorso» disse.

Dolorante, ma compiaciuta, si sedette su uno degli scomodi divanetti mentre lui armeggiava con il kit di pronto soccorso e le applicava un unguento sulla mano, prima di bendarla. Era inutile, ma lo lasciò fare. Le mani gli tremavano.

«Grazie» gli disse.

Lui alzò le spalle. «Di niente.»

Lei si guardò intorno. «Dove sono tutti oggi? È così silenzioso.»

Lui alzò di nuovo le spalle. «Non lo so.»

«Non ti dicono niente?»

Si assicurò che nel suo tono ci fosse un pizzico di condiscendenza, mischiata a sorpresa. Lo voleva sulla difensiva, ma non arrabbiato.

«Sì che mi dicono le cose» rispose, indignato.

«Ad esempio?»

Esitò.

«È normale» disse lei. «Non dicono niente neanche a me.»

Lei si accorse che questo lo faceva riflettere e dubitare di sé stesso. Lui non voleva essere al suo stesso livello (sul fondo) quando aspirava a diventare uno dei gangster.

Dopo una pausa, disse: «È in corso un accordo. È importante.»

Lei si assicurò di sembrare colpita, ma solo per ottenere un maggior effetto quando aggiunse: «Non ti hanno portato con loro?»

Lui non disse niente.

«È andato quello nuovo all’accordo?» gli chiese.

Stava per dire qualcosa, ma invece annuì, gli occhi rivolti miserevolmente verso il basso.

«Perché hanno portato lui al posto tuo?»

«Non lo so» borbottò.

Lei sapeva che questo suo non sapere lo rendeva fin troppo consapevole del suo status in fondo alla gerarchia del branco. Le sue spalle si abbassarono, perché lei lo aveva innalzato solo per poi riportarlo nuovamente giù.

«Ah,» disse lei «hanno bisogno che tu stia qui a gestire il posto.»

Lui sollevò gli occhi verso di lei, rinfrancato da quella logica incontrovertibile e dal complimento dispensato. «Giusto.»

«È un compito importante.»

Lui annuì. «Lo è. È molto importante. Più importante di aiutare a spostare le nuove ragazze in ogni caso.»

«Devono fidarsi molto di te per lasciarti al comando.»

Lui sorrise timidamente. Lo aveva portato quasi dove voleva. «Hanno portato tutte le ragazze nuove all’accordo? Eccetto me, intendo.»

Lui scosse la testa. «Solo tre.»

Rifletté. Erano in sette al deposito rottami, lei compresa. Una era stata uccisa e una aveva il naso rotto, il che significava che non poteva essere venduta sul mercato, ma in questo modo mancava all’appello una ragazza.

«Allora dov’è l’ultima ragazza?»

Lui scrollò le spalle. Non voleva dirlo. Non sapeva perché.

Lei cambiò argomento per mantenerlo dalla sua parte: «Cosa ne pensi del tizio nuovo?»

«Non ci ho parlato in verità. È ungherese.»

«E gli altri cosa pensano di lui?»

Ci fu di nuovo un baluginio nei suoi occhi, e raddrizzò la schiena, perché si era reso conto o si era ricordato di qualcosa che lo innalzava. «Lo hanno preso solo perché non si fidano di lui.»

«Come fai a saperlo?»

Scrollò le spalle come se fosse qualcosa di insignificante, come se lui sapesse tutto. «Me lo ha detto Zoca.»

«Cosa ti ha detto?»

«L’ungherese è stato messo sotto sorveglianza.»

«Cosa significa?»

Si sentiva potente ora, con le sue informazioni privilegiate, ed era felice di condividerle per dimostrare quel potere, senza chiedersi il perché lei gli stesse facendo quelle domande.

«Lo stanno facendo seguire, per scoprire di più sul suo conto. Se c’è qualcosa su di lui che non va, lo uccideranno.»

«Oh» disse lei.

«A Zoca non piace» aggiunse in fretta il ragazzino, per continuare il suo delirio di onnipotenza. «Spera che l’ungherese si riveli inaffidabile. Mi ha detto che...»

Si fermò, rendendosi conto di quello che stava facendo: rivelare informazioni sui suoi superiori a una prigioniera. Non sembrava compiaciuto in quel momento, ma nervoso.

Lei finse di esaminare la sua mano bendata, comportandosi come se non gli stesse prestando attenzione.

«Grazie per avermi aiutata. Ora va molto meglio.»

«Di niente.» Si morse il labbro. «Non dire a nessuno quello che ti ho detto.»

«Che vuoi dire? Cosa mi hai detto?»

«Sull’ungherese. Su Zoca.»

Lei sorrise, simulando innocenza. «Puoi fidarti di me.»