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L’alba era gialla e pallida, ostacolata e filtrata dalle nuvole, era difficile intravederla nel cielo grigio. Un’alba mediocre, secondo i canoni di bellezza condivisi, ma Victor la apprezzò. Aveva sempre amato l’alba. Vederne una significava che era riuscito a sopravvivere un’altra notte.

Belgrado gli piaceva. Gli piaceva l’atmosfera che si percepiva nella città, come freddo e bellezza si fondessero perfettamente insieme, come un disegno tattile. I serbi sembravano educati e di natura onesta, con la risata e la battuta facile. Di recente c’erano stati talmente tanti tumulti, che fuori dai suoi confini la ricca storia della città era stata quasi dimenticata. Era ancora una giovane nazione post comunista, ma abbastanza antica da essere riuscita a creare un’identità nazionale forte come quella di altri Stati più conosciuti, grazie alla sua cultura e ai suoi costumi. La gente del posto conosceva le buone maniere, ed era questo che lui rispettava.

La città era sia vecchia che nuova, brutta e bella allo stesso tempo; siti storici annidati tra edifici di cemento dell’epoca comunista; uffici moderni trascurati e chiese imbiancate di fresco.

Aveva Hector là fuori che faceva domande per conto suo, e una possibilità di osservare il braccio destro di Rados quella stessa sera, ma c’era ancora molto lavoro da fare.

Victor voleva esplorare tutte le potenziali strade che conducevano al suo bersaglio. La sua ricerca avanzata gli aveva fornito l’ubicazione di un club per ex soldati delle forze armate. Rados non era stato nell’esercito regolare serbo, ma aveva combattuto al suo fianco.

La città mutò nel momento in cui Victor attraversò un ampio viale e il parco che si trovava sul lato opposto. Dall’altra parte del parco, il quartiere sembrava essere costituito solo da cemento e sporcizia.

I begli edifici color pastello della città vecchia non si scorgevano da nessuna parte. Lì regnavano povertà e trascuratezza. Anche la gente era diversa. Non erano tanto i loro vestiti, più scadenti e sformati. Erano i loro movimenti, più lenti. Portavano il peso dell’esistenza quotidiana; e non avevano fretta di procedere. Quel peso era palpabile come se fosse stato sospeso nell’aria.

Un ragazzo senzatetto lo importunò per qualche spicciolo. Con il suo completo e il soprabito, lì si faceva notare. La gente lo guardava ovunque andasse. Era impossibile restituire tutti gli sguardi.

Raddrizzò la schiena per aggiungere forza alla sua postura. La sua espressione, solitamente neutra e trascurabile, si indurì per far intendere che era propenso a disporre di quella forza. Non temeva i criminali opportunisti, ma era meglio non averci a che fare a priori.

Alcuni edifici sembravano abbandonati. Alcuni erano occupati nonostante sembrassero pericolanti e invivibili.

Superò un muro ricoperto di bellissimi graffiti. Qualcuno aveva dipinto con la bomboletta un vortice di galassie e una nebulosa brillante. Restò per qualche istante in piedi davanti al muro per poterlo apprezzare meglio. Se ne andò prima di quanto avrebbe voluto perché si stavano avvicinando altri pedoni. Su un altro muro qualcuno aveva abbozzato la scena di un goal calcistico, completo di pali inclinati e una rete con un buco largo abbastanza per far passare un pallone. Vicino al goal gironzolava un uomo anziano con un maglione più grande di tre taglie che gli offrì una grappa slivovitz alle prugne fatta in casa. Il vecchio la vendeva dentro a bottiglie di vino riadattate per la sua attività. Alcune bottiglie avevano ancora l’etichetta: pinot nero, rioja e altri, in svariate lingue. Victor comprò una bottiglia perché l’uomo gli ricordava qualcuno che conosceva un tempo, e che avrebbe voluto conoscere ancora. Il vecchio, così abituato a ricevere rifiuti o a essere ignorato, insistette nel dare a Victor una bottiglia aggiuntiva per dimostrargli quanto avesse apprezzato la rara vendita. Victor accettò la seconda bottiglia ma fu altrettanto insistente nel pagarla. L’uomo si stava asciugando le lacrime mentre Victor si allontanava.

Il club era situato in un quartiere con alcune proprietà residenziali. Quella era un’area in cui nessuno avrebbe scelto di vivere. Era decadente e industriale, fatiscente e sgradevole. Circolavano poche auto e anche i passanti scarseggiavano. Persino i senzatetto ne restavano alla larga.

Era inevitabile, realizzò a posteriori. Se lo aspettava molto prima che accadesse. Era uno straniero lì. Il suo abbigliamento, così utile per mescolarsi nel contesto della maggior parte degli ambienti urbani, lì lo metteva in risalto. Era un forestiero dall’aspetto rispettabile nella parte malfamata della città. In ogni caso avrebbe dovuto evitarlo (sapeva come funzionavano certe cose), ma era concentrato sul pericolo reale rappresentato dalle minacce professionali, per notare in tempo una minaccia amatoriale ed evitarla.

Erano un trio di degenerati locali, senza fortuna né abbastanza neuroni per notare i segnali che irradiava, i quali al contrario sarebbero stati di facile lettura per un collega professionista. Il suo soprabito era aperto nonostante il freddo, e le sue mani, prive di guanti, erano appese ai fianchi. I suoi occhi non smettevano mai di muoversi e i suoi vestiti, sebbene di una certa qualità, non aderivano alla sua figura come avrebbero dovuto. Nessuno dei tre era grosso ed erano tutti fuori forma. Non erano nemmeno veri criminali. Erano opportunisti ubriachi o strafatti, o ambivano a esserlo. Lo scambiarono per un bersaglio facile, qualcuno da spaventare per costringerlo a consegnare un portafoglio o un telefono, in modo da rendere la loro settimana un po’ più facile. Uno mostrò una lama. «Dacci i tuoi oggetti di valore e non ti faremo del male.»

«Correte più veloce che potete e vi lascerò andare.»

Non lo fecero.

Li lascò vivi, ma prima che qualcuno di loro riprendesse a camminare, si sarebbe già lasciato Belgrado alle spalle da un pezzo.