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L’indirizzo che Rados aveva fornito a Victor si rivelò essere di un edificio di cemento squadrato, risalente all’epoca del comunismo, basso, lungo e abbandonato. Era circondato da parcheggi. La vegetazione si era sollevata riuscendo a farsi spazio tra l’asfalto, crepando e trasformando la superficie, un tempo liscia, in un paesaggio lunare di protuberanze e crateri. Una recinzione di rete metallica sferragliava nel vento.
Victor parcheggiò la vecchia BMW e attraversò il parcheggio, il suo sguardo si spostava rapidamente avanti e indietro per ispezionare l’oscurità. L’edificio non emanava alcuna luce. Solo le luci della città fornivano una sorta di illuminazione. Le nuvole nascondevano le stelle.
Non sembrava per niente un club di tipo convenzionale. L’edificio era in uno stato lampante di semirovina. Non c’erano insegne al neon e nessun rimbombo di bassi a riempire l’aria. Nessun buttafuori in smoking all’esterno, e nessuna coda di aspiranti festaioli con indosso vestiti invernali inadeguati. Solo una manciata di tirapiedi che si aggiravano intorno all’entrata.
La natura aveva iniziato a riprendersi la terra. L’erba si era insinuata tra l’asfalto. Muschi e licheni crescevano all’esterno dell’edificio. Le finestre del piano terra erano sbarrate con lastre di compensato che aveva cominciato a marcire da tempo. Era stato costruito in fretta e con materiale scadente, e anche se fosse stato nuovo di zecca, le linee spoglie, il cemento informe e l’intonaco granulare non avrebbero potuto conferirgli un aspetto gradevole.
Non c’erano auto nel parcheggio, quindi Rados non voleva attirare l’attenzione, sebbene gli abitanti della zona dovessero aver notato l’afflusso di auto parcheggiate nelle strade vicine, e gli uomini sgradevoli che si radunavano in un edificio abbandonato da tempo. Gli uomini davanti all’edificio chiaramente lavoravano per Rados. A tradirli era la loro uniforme fatta di jeans, giacche di pelle e abbigliamento sportivo, insieme ai capelli a spazzola coordinati, in vari stadi di ricrescita. Nessuno di loro era ben rasato. Mentre fumavano e parlavano, l’oro scintillava dalle loro catenine e dai loro anelli con sigillo. Victor si era fatto un’idea di che genere di club poteva essere.
Lo videro avvicinarsi molto più tardi del dovuto, ma si trattava di criminali, non professionisti.
Diverse paia di occhi lo guardarono, realizzando chi fosse.
Era troppo buio per leggere le loro labbra con precisione, ma poteva indovinare la natura dei loro bisbigli.
‘Quello è il tizio nuovo...’ Oltre a fissarlo, nessuno gli parlò o gli fece un cenno di saluto. Passò attraverso una sottile foschia di fumo di sigaretta. Erano passati anni dall’ultimo tiro, ma l’odore continuava a stuzzicarlo. Gli uomini di Rados non sembravano accusare il freddo. Ci erano abituati, inoltre non volevano apparire deboli mettendosi addosso vestiti più caldi. Persino il più incallito dei criminali era alla mercé della pressione esercitata dal gruppo e dal bisogno di essere integrato. Il desiderio del consenso sociale era qualcosa che Victor aveva appreso osservando, piuttosto che dalla sua esperienza personale. I veri solitari come lui erano contro natura.
Due uomini fiancheggiavano l’ingresso. Nessuno dei due era alto, ma sembravano grossi e funzionali, con mani che avevano tirato un gran numero di ceffoni e facce che ne avevano ricevuti altrettanti. Diedero spettacolo guardandolo dall’alto in basso, fingendo di non sapere chi fosse. Victor mantenne la sua posizione, lasciando che si godessero il loro momento. Volevano intimidirlo, invece Victor li osservò con sguardo calmo. Come regola preferiva che i potenziali nemici lo sottostimassero, ma in quella circostanza mostrare sottomissione non lo avrebbe avvantaggiato. Non lo avrebbero rispettato in quel modo, e il personaggio che stava interpretando (Bartha il killer ungherese) non si sarebbe fatto intimidire da una coppia di delinquenti da quattro soldi.
«Sono qui per incontrare Rados» disse, quando fu chiaro che loro non avrebbero aperto bocca per primi. Uno dei due indicò con il pollice. «Al piano di sotto.»
Non tentarono di perquisirlo, il che non lo sorprendeva. I criminali non erano mai meticolosi come i professionisti, e sicuramente ogni altro tizio in quel posto aveva un’arma con sé. Alcuni avevano delle pistole, e quelli che non le avevano erano armati di coltelli oppure preferivano armi da mischia. Anche se Victor avesse avuto una mitragliatrice sotto al cappotto, non gli sarebbe bastata.
Nessuno dei due si mosse per farlo passare. Capì ciò che volevano: obbligarlo a farsi largo tra le loro spalle, così che potessero resistergli e rendergli difficile l’ingresso.
«Mi offrite una sigaretta?» disse.
Ci fu un momento di esitazione, ma sapeva che gliel’avrebbero data. Rifiutare avrebbe significato che non potevano permettersi di regalare una sigaretta, o peggio che provassero avversione nei suoi confronti senza conoscerlo, il che, tradotto nel loro linguaggio, voleva dire essere intimiditi da lui.
Il tizio sulla sinistra annuì, ma quello alla destra di Victor fu più veloce a rovistare nel suo pacchetto. Fece uscire una sigaretta, e Victor la prese. L’uomo gliela accese e Victor inspirò il fumo, facendo arroventare la cenere. Espirò la boccata di fumo delizioso, e gettò la sigaretta addosso al tizio che gliel’aveva data. Quando la sigaretta lo colpì in pieno petto, e cadde perdendola di vista, l’uomo sobbalzò spaventato. Era importante sapere dove fosse atterrata; il terrore che gli fosse finita sulla patta dei pantaloni fu sufficiente a farlo arretrare, dandosi delle pacche in modo frenetico nel tentativo di trovare la sigaretta accesa prima che lei trovasse le sue palle.
Victor passò attraverso l’apertura. Era già a metà delle scale che conducevano al piano di sotto, quando il tizio si rese conto di essere fuori pericolo, mentre l’altro uomo era impegnato a ridere e a prenderlo in giro per il panico dimostrato. Il club si trovava sottoterra, sotto una scalinata che riecheggiava a ogni passo, attraverso corridoi in penombra e camerini dalle piastrelle bianche, oltre delle docce montate a muro, fino a raggiungere una piscina che sprofondava nel piano interrato.
La stanza era illuminata da lampade alogene portatili. C’erano almeno tre dozzine di uomini in attesa sul posto, che sovrastavano la bassa piscina vuota. Oltre alla banda di Rados, ce n’erano all’incirca altri venti, meglio vestiti, che avevano l’aria di essere dei civili. Alcuni erano in giacca e cravatta e avevano i propri scagnozzi.
Rados stava socializzando, sorrideva e rideva come se si stesse divertendo in loro compagnia, e non come se fosse lì per sfruttarli, tradirli o derubarli. Vide Victor entrare e gli fece cenno di avvicinarsi.
Victor lo assecondò, facendosi largo tra la folla e sorpassando la piscina. Era lunga venti metri e larga dieci. Si inclinava raggiungendo una profondità di due metri, e circa la metà nella parte più bassa. Era stata prosciugata molto tempo prima e mai riempita nuovamente. Non c’era traccia di cloro nell’aria. Al contrario puzzava di fluidi corporali, vecchi e recenti: sudore e sangue, urina e feci. Victor lo conosceva bene, era l’odore della violenza.
Rados disse: «Benvenuto a Disneyland.»