CAPITOLO XIV.

IL giorno dopo era sabato e Richard non telefonò, Giovanna fece altrettanto: pur essendo cosciente di un torto subito, si sentiva confusamente colpevole. Al mattino della domenica, Martine andò a Washington per posare in chiffon dinanzi alla statua di Lincoln e suggerì a Giovanna di andare con lei ma Giovanna rispose di no, aspettava la telefonata di Richard: non era mai successo che Richard mancasse di telefonarle per due giorni di fila e, dopo la catastrofe con Florence, era proprio importante che si vedessero. Richard non chiamò. Non chiamò alle undici, né a mezzogiorno, né all'una, né alle due, né alle tre. Ancora una volta, quel telefono zitto con quei numeri fermi dentro quei buchi fermi tornava ad essere qualcosa di maligno e di vivo che le schiantava la testa, le metteva addosso la tentazione di sollevare il ricevitore, pensava Giovanna. Per non chiamarlo, indugiò ad ascoltare dischi, attaccare bottoni, perfino rileggere l'idea del soggetto che progrediva come un bimbo paralitico, infine a riguardare le fotografie che s'erano fatti a Times Square, i cartoncini dove la macchina aveva predetto il futuro, la bambola col nome di Povera Perla Pietosa che la fissava coi suoi occhi di vetro, il suo perpetuo sorriso. Le campane della chiesa di fronte suonavano il vespro quando essa cominciò a sospettare che fosse successo qualcosa. Allora sollevò il ricevitore, compose il numero di Richard. Non rispose nessuno. Provò una seconda volta, e una terza. Non rispose nessuno. Uscì, camminò fino alla casa di Richard per vedere se filtrava una luce dalle finestre. Le finestre erano buie. Tornò indietro, mangiò qualcosa, andò a letto, rifece il numero. Non rispose nessuno. Tentò di placarsi accendendo la radio ed ascoltando un concerto di Vivaldi. Dopo poche note la voce dell'annunciatore tuonò: "Avete mai sentito parlare del cancro? Bisogna combattere il cancro. Non trarrete sincero diletto da questa bellissima musica se non contribuite alla battaglia contro il cancro. Ricordatelo! Anche voi potreste essere colpiti dal cancro". Girò il bottone facendo le corna, si mise ad ascoltare un altro concerto: stavolta Beethoven. Dopo qualche minuto i violini tacquero e la voce del solito scalognatore tuonò: "Avete mai sentito parlare della leucemia? Bisogna combattere la leucemia. Non trarrete sincero diletto..." Chiuse la radio con gesto rabbioso. Che avesse ragione Igor a sostenere che gli americani sono il popolo più ammalato del mondo? Ricompose il numero di Richard. Non rispose nessuno. Provò ancora, poi ancora, fino a quando quei numeri in moto diventarono un incubo. E la notte invecchiò come una minaccia, poi un presentimento, poi una certezza dissolta tuttavia al fiorire dell'alba, quando, messo da parte ogni orgoglio, disposta al perdono anzi ansiosa di chiederlo, telefonò ancora a Richard. Senza avere risposta. Allora telefonò allo studio e qui una segretaria dalla voce d'angelo rispose con perfidia che il signor Baiine era assente, che ignorava quanto sarebbe rimasto assente, che sapendolo si sarebbe guardata dal dirlo poiché non ne aveva l'autorizzazione, buongiorno. Uscì. Tornò a vedere se i vetri delle finestre di Richard erano abbassati. Erano alzati. Salì. Bussò alla porta smaltata di verde, la housekeeper aprì per dirle che il signore non c'era, evidentemente non aveva dormito in casa quella notte poiché il letto era intatto. Così tornò a casa, poi ad altre ventiquattr'ore d'attesa che furon l'inizio di una tortura sempre più densa e sempre più intollerabile. E malgrado la vita le serbasse in seguito torture più gravi, non sarebbe mai riuscita a scordarla: come non si scorda il primo dente che ci portano via, la prima notte nel letto di un'altra creatura, il primo stupore di fronte alla morte. I giorni, ora che Richard era nuovamente fuggito, stagnavano immobili: pesanti come l'aria d'agosto quando tutto s'acquatta in un raschiar di cicale. Le ore si raddoppiavano come secoli di ozio che niente basta a riempire: e in quel vuoto tutto le appariva distorto da una brutale