dall'esperienza, gli stessi dubbi e gli stessi interrogativi, e la stessa grinta nell'affrontare la vita: ha, resa dal tempo più lucida e cosciente, la medesima nozione della propria femminilità e del suo ruolo nel mondo d'oggi. Romanzo teso e serrato nella progressione dei suoi viluppi e sviluppi (e qui forse stavolta la giornalista ha prevaricato ogni tanto sulla narratrice), Penelope alla guerra racconta una storia, in fondo, tipicamente moderna: l'impossibile amore della ragazza Giò per l'americano Richard, questo patetico Puck che al contrario del folletto scespiriano è nella sua fragilità più che il simbolo della capricciosità dell'amore il simbolo di una nevrosi; ma la Fallaci ha dato alla vicenda certi trasalimenti, e brividi e certe apprensioni di grande
tenerezza. Di più: direi che in pochi libri come Penelope alla guerra c'è il tentativo ben preciso di cogliere la poesia della vita moderna con tanta immediata freschezza: si pensi, per esempio, al notturno vagabondaggio di Giò e Richard per le strade di New York la sera del loro primo incontro, o alla loro gita alle cascate del Niagara, un pezzo che rasenta il virtuosismo, o a quella di fine-settimana per la campagna americana... Ma non vorremmo suggerire un'immagine falsamente idilliaca (s'è parlato di poesia, è vero, ma di vita moderna) di un romanzo ch'è al contrario drammatico e persino aspro, e dove, a conti fatti, il messaggio è quello, non molto consolante, che possiamo ricavare dalla lettera di Bill a Giò che torna a Roma sconfitta: «Non ti protegge nessuno dal momento in cui nasci e piangi perché hai visto il sole. Sei sola, sola, e quando sei ferita è inutile che aspetti soccorso»... Del resto Bill, e la stessa Martine o Francesco, e quel terribile personaggio ch'è Florence, la madre di Richard (un personaggio che da solo può sostenere e definire le qualità di uno scrittore, e che ci documenta a sufficienza su di una società di tipo e clima matriarcale) sono lì, nelle pagine, a correggere ogni falsa
interpretazione, e a confermarci che siamo di fronte a un libro violento e tenero, spregiudicato e moralistico, crudele e appassionato, disperato e ottimista, in virtù del quale Oriana Fallaci s'è collocata nel panorama della nostra giovane narrativa con un suo posto preciso e una sua nota inconfondibile.
a mia madre.
PENELOPE ALLA GUERRA aprile 1974.
MICHELE PRISCO.
Questa nota è per ringraziare un amico. L'amico è Franco Cristaldi che mi ha indotto a riscrivere Penelope alla guerra ed a pubblicarlo com'è. La prima stesura fu scritta, infatti, tre anni fa, e mi parve così brutta che per lungo tempo la tenni nascosta. Devo ai consigli, agli incoraggiamenti, all'entusiasmo, alla prepotenza di Franco Cristaldi, produttore che sa leggere, se invece la riscrissi una seconda volta, tornai in America per riscriverla una terza volta, e infine la consegnai al mio editore. Era stato un colloquio ridicolo. "Qualcosa di moderno, Giò, e di commovente. Una storia d'amore, inutile dirlo, ma con qualcosa in più che l'amore. Il pubblico, altrimenti, si annoia. E ricordi che la protagonista deve essere italiana, il protagonista americano: conosce i problemi della coproduzione.
Due mesi le bastano, Giò?" "Certo, commendatore." Il produttore parlava, parlava,
e lei anziché seguirlo fissava l'orologio a pendolo sulla parete di fronte: anche nel corridoio dove l'avevano messa a dormire quando Richard s'era preso il suo letto c'era un orologio a pendolo, e ogni quarto d'ora suonava col verso della campana di Westminster. "Le affido un compito insolito, in realtà le regalo una lunga vacanza. Se ne rende conto, Giò? " "Certo, commendatore." Una campana che non assomigliava a nessun'altra campana. Di giorno, le faceva pensare al matrimonio di un