qualche teatro o night club o cinema: dove Richard sedeva arrotolato come un gatto, la mano nella mano di Giovanna che poi la ritirava intorpidita facendogli gridare. "Dove sei andata a finire! Rendimi la mano!" Oppure andavano a un cocktail, a un'anteprima, in qualche luogo sempre pieno di gente, dove quel divertirsi ciarliero, affettuoso, incompleto, durava fino alle tre del mattino, o alle quattro: quando Giovanna rientrava con le scarpe in mano per non svegliare Martine, e si abbatteva semisvestita sul letto, incapace di prendere sonno, insoddisfatta, intenta a chiedersi cosa vi fosse di sbagliato nei suoi rapporti con Richard che in otto giorni non aveva più osato riportarsela a letto. "Ti accompagno?" "No, tocca a me accompagnarti." "Vuoi salire?" "No, è quasi l'alba." "Vengo a prenderti io, domani?" "No, tocca a me venire a prendere te." E in questo ricordo di schermaglie, discussioni penose, tentativi sempre falliti, essa si addormentava: per risvegliarsi al mattino con la testa pesante, la lingua impastata, le gambe intorpidite, il braccio teso verso il telefono per rispondere alla chiamata di lui. I giorni, in quel periodo, diventavano spazi tra una telefonata e l'altra, tra il momento in cui Richard saliva le scale a incontrarla e il momento in cui la salutava in fondo alle scale. E in quegli spazi non riusciva a far nulla di serio. Il soggetto del film era un incubo sempre rimandato, la fiducia di Gomez una preoccupazione mai risolta. A volte, per illudere Gomez, andava in ufficio ed incaricava la ragazza con gli occhiali di farle qualche ricerca, copiare gli appunti con cui riempiva il suo taccuino: frasi, osservazioni, pensieri di Richard. Oppure tentava di cucire insieme una storia: ma le parole, nel suo cervello annebbiato, diventavano numeri; su ciascun foglio si ripeteva come un ritornello il medesimo inizio: "Elena alzò le braccia al cielo e gridò: 'Christian Dior!' Elena era bella, con un volto irregolare di cui conosceva l'irresistibile fascino, e all'anulare sinistro portava un brillante grosso come una caramella di menta". Uno di quei fogli era capitato a Martine la quale, pur sentendosi lusingata, s'era messa le mani tra i capelli. "Christian Dior! E' qui il tuo famoso talento? " "Dammi tempo, Martine. Manca l'ispirazione, verrà." "Non hai mai sofferto davvero. Ecco perché ti manca l'ispirazione." "Che ne sai tu della sofferenza, Martine?" "Niente, mon petit chou. Hai proprio ragione." Date le condizioni di privilegio in cui era partita, pensava Giovanna, e le poche settimane trascorse, non c'era motivo di pigliarsela troppo. Come se ciò non bastasse, il produttore le aveva risposto rallegrandosi per la bontà dell'idea ed incitandola a prendere tempo. Tuttavia il senso di colpa aumentava, insieme al bisogno di sfruttar meglio un tale soggiorno, e invano essa ripeteva a se stessa di non perdersi in scrupoli: stava vivendo il periodo più affascinante della sua vita, il più spensierato, il più fertile... Fertile? Non dormiva abbastanza, verso le dieci si alzava piena di nausea e beveva litri di caffè per svegliarsi, rispondere con voce allegra a Richard: "Certo che ci vediamo. Alle sette". Poi, con sforzo, si preparava a raccogliere energie per la sera e, mentre Martine scuoteva la testa, usciva a sgranchirsi le gambe pel Village. Inevitabilmente però capitava sotto le finestre di Richard, gli occhi sull'atrio col Leone di pietra o l'insegna spenta del Gordon's Gin, e saltava su un taxi. Il taxi la lasciava in midtown: ormai trascinata dalla pigrizia entrava nei magazzini, in un Automat. Non sapeva resistere all'insegna dell'Automat, quelle lettere rosse che simboleggiavano l'America crudele di Bill, tradita ogni sera insieme a Richard. Si avvicinava alle macabre pareti di vetro divise a sezioni, Cibi Caldi, Cibi Freddi, Dolci, Bevande, infilava i soldi dentro lo sportellino, girava la manovella, e, con l'ingenuo divertimento che l'aveva aggredita i primi giorni a New York, afferrava un hamburger, un'insalata appassita: che al tavolo di plastica non avrebbe mangiato. Poi usciva, si avviava per la Quarantaduesima, si tuffava nella Quinta Avenue, sedeva sulle scannate della Public Library insieme agli studenti e ai vagabondi. L'edificio neoclassico della Public Library, con le colonne bianche, le balaustre punteggiate da escrementi di piccioni, gli