genere esse siano. Il dramma più umano nella storia di Peer Gynt si svolge quando egli scende nell'antro delle streghe e riesce a liberarsene. Dev'esserci in me la stoffa di Solvej: le streghe non mi spaventano, anch'esse hanno il diritto di vivere. Amichevolmente, tua Giò. "P.S. Non ho bisogno di medici. Non mi sono mai sentita così bene." Chiuse la lettera, uscì nel corridoio per imbucarla nel canale pneumatico ripetendo i medesimi gesti di quando aveva scritto a Francesco, si accinse con apparente indifferenza ad aspettare lo sviluppo della situazione. Poteva anche darsi che Richard si avvicinasse come un topo alla trappola e mangiasse il formaggio. Se poi non lo mangiava, pazienza: Richard sarebbe rimasto nella sua vita come il romantico strumento che l'aveva liberata di un dente noioso, la sua defunta verginità. Prima o poi la cosa doveva pur avvenire: in questo senso gli doveva perfin gratitudine. Via, non era un'autentica donna ormai? E con gesti nuovi fece scorrere l'acqua nel bagno, si tuffò, accarezzò il piacere di sentirsi pulita sotto il sapone. Non c'è niente di meglio che una buona saponata per lavarsi di troppe emozioni: lo diceva anche Francesco. Allora ricordò che, Francesco esisteva, la sicurezza svanì. Spalancò la bocca, guardò l'acqua come uno che affoga, e quasi cadde sul bordo freddo, smaltato di bianco. "Domani," disse riprendendosi subito, "mi trasferisco da Martine."
CAPITOLO VI.
La casa di Martine era una villetta a tre piani in Washington Square: col tetto di ardesia, la facciata coperta di edera, e il prezzo eccessivo di un oggetto di antiquariato. Vi si accedeva per una porticina a vetri, laccata di bianco e protetta da tendine di organza, poi per un corridoio saturo di Jolie Madame che Martine spruzzava ogni giorno come il DDT. Accanto alla soglia c'era un impianto di allarme che suonava tutte le volte che la
porta si apriva: sicché la cameriera doveva subito sollevare il microfono ed avvertire la polizia pronta ad accorrere di non scomodarsi, era entrata la padrona di casa o un amico. Martine, sempre affitta dal terrore d'essere derubata o uccisa, aveva fatto installare quello strumento in complicità con un tale dell'FBI, ed esso era l'unico neo nell'esasperata sofistication di un luogo dove non esisteva nulla di sbagliato: né un posacenere, né una moquette, né il velluto color foglia morta che fasciava la ringhiera della scala interna. Per quella scala si saliva al primo piano dov'erano la stanza da pranzo e il soggiorno, entrambi pieni di quadri ninnoli specchi che Martine aveva portato dall'Europa insieme alla sua svagata follia, poi al secondo piano dove c'erano la camera sua e quella dell'ex: occupata da Giovanna. Le camere erano separate da un boudoir e guardavano su Washington Square: coi platani, le panchine, il busto di Garibaldi, la chiesa cattolica, i ragazzi in blue jeans, il vecchio bar frequentato dagli omosessuali, le indossatrici ammalate di cerebralismo, i beatniks, e con un nome francese, Monocle. "Anche la cultura ha i suoi diritti, n'est-ce pas? E poi, cherie, io non posso sopportare la East Side, gli ascensori. L'unica cosa che può farmi rompere con Bill è che abita al diciottesimo piano e nella East Side." Giovanna detestava i clienti del Monocle, la falsa disinvoltura del Village: di New York preferiva, ostinatamente, i solidi grattacieli di vetro, i veloci ascensori. Ma la casa di Martine offriva il vantaggio di distare solo tre blocchi da quella di Richard e Martine, come ospite, era perfetta. Distribuiva attenzioni, ascoltava qualsiasi lamento, restituiva il buonumore solo esclamando: "Christian Dior!": il suo modo di tradurre l'imprecazione "Cristo di Dio*. Perfino quando aveva saputo di Richard s'era limitata ad esclamare "Christian Dior!", poi a suggerire un viaggetto. "Mi hanno invitato a un garden party nel New England: vieni con me, mon petit chou. Conoscerai decine di Richard da non buttar via." "Grazie, Martine.. Preferisco restare a