Capitolo 75

Palazzo del Sacro Monte di Pietà, rione Regola, giovedì 1º marzo 1764.

Durante l’abbordaggio della galea papale San Pio.

Donato Aldobrandini di Carpi misurò nuovamente l’ufficio con i suoi passi cadenzati. Ormai lo scambio doveva essere stato completato.

Sorrise. I veneziani lo avevano preso per uno stupido? Dopo il tiro mancino al confine con il Granducato, dove avevano provato a toglierlo di mezzo, era chiaro che la contessa poteva vantare importanti amicizie. Sicuramente, tali da convincere i fiorentini. Per quanto riguardava i veneziani, invece? Era possibile che si trattasse di un nuovo tentativo di farlo cadere in un’imboscata?

Nel dubbio aveva deciso di non prendere parte alla missione in Levante. Aveva contrattato con il commissario del mare l’uso della San Pio e accanto ai fanti di marina, addestrati per ogni eventualità, aveva mandato uomini di sua fiducia: Viviani e la sua ciurma, e anche Prospero Ruffo, affinché gli riferisse l’accaduto.

Aldobrandini controllò l’orologio francese appeso alla parete dell’ufficio: segnava le dieci di mattina. Se davvero i veneziani volevano consegnargli la contessa, a quell’ora la bella e misteriosa veggente doveva ormai essere sulla galea.

Infilò le mani nelle maniche del suo abito cardinalizio e andò alla finestra. Sotto di lui la piccola piazza del Monte era pressoché deserta. Vide il vento sollevare il cappello di una dama che stava attraversando e un cavallo bianco legato a uno degli appigli del palazzo di fronte. Proprio sotto le sue finestre, imbrigliate nel ponteggio di un cantiere, si stava invece fermando un carro carico di fieno.

E fu allora che udì qualcosa che non si aspettava di dover udire.

Si trattava di un arpeggio di pianoforte. Una melodia che non aveva mai sentito…

Si accarezzò il mento, pensoso. Era possibile che fosse arrivato l’accordatore del pianoforte nella sala della Musica? Se era così doveva averlo chiamato il maestro di casa…

A grandi passi raggiunse la scrivania ingombra di cedole da esaminare e suonò una campanella di metallo.

Il maestro si materializzò davanti a lui in pochi istanti.

«Avete fatto venire l’accordatore?».

L’uomo, magro come un cane randagio, impettito nel suo abito scuro che risaltava sulla pelle bianca, parve stupito. «Veramente… credevo fosse stato voi a dare l’ordine».

Aldobrandini sbuffò. Se non era stato il maestro e non era stato lui, evidentemente doveva averlo chiamato Ruffo. Aveva pensato bene di non avvisarlo e soprattutto di imbarcarsi sulla San Pio durante la visita.

Sistemò lo zucchetto sul capo e uscì dallo studio di gran carriera. Scese le scale e raggiunse la sala della Musica. Non era la prima volta che l’accordatore scelto da Ruffo non faceva un buon lavoro con il pianoforte Silbermann.

«L’ultima volta il do minore e il la erano calanti», lo rimproverò, ancora dal corridoio, senza salutarlo. Ma appena entrato, oltre la coda bianca e lucente del piano, vide un viso conosciuto e si bloccò all’istante. Deglutì, e l’umor nero gli passò di colpo, sostituito da brividi freddi. «Cosa ci fate qui?».

Eliardo, di spalle, mormorò gli ultimi versi della canzone senza prestare attenzione al padrone di casa.

Strega era detta, concubina di Plutone

Il buio era il suo Regno, la sua religione.

Terminato di cantare, ricacciò i versi successivi in gola.

«Potrei farvi la stessa domanda, cardinale», ghignò, imitando la pronuncia dalla R moscia di messer Ciriello. L’ultima volta che aveva suonato quel Silbermann era stato proprio impersonando il mercante napoletano. «Non dovreste essere nel Levante?»

«Ci siete di mezzo voi, quindi, nell’affare proposto dai veneziani?».

Eliardo sorrise senza rispondere.

«Che cos’era, un modo per potermi parlare senza l’intralcio delle mie guardie?».

Eliardo sollevò la mano sinistra dalla tastiera del piano. La destra era poggiata sul calcio della pistola a pietra focaia che portava infilata sotto la marsina. Non aveva mai sparato con l’intento di uccidere e si ritrovò a domandarsi se ne sarebbe stato capace.

«Sinceramente non ho mai creduto che sareste andato di persona nel Levante», confessò. «Visto che però il bottino era tale da ingolosirvi, confidavo nel fatto che ci avreste mandato i vostri fedelissimi».

Aldobrandini sorrise. «Non tutti, ovviamente».

«Touché, cardinale», ammise Eliardo, stringendo le dita attorno al calcio della pistola. «Non tutti forse, ma certamente i migliori. Gli altri, perdonatemi, si sono accontentati di qualche zecchino per chiudere un occhio e lasciarmi passare. E il maestro di casa… ne avrei scelto uno più sveglio».

Il cardinale, fino a quel momento immobile davanti alla porta della sala della Musica, si mosse verso il pianoforte, le braccia larghe. «Cosa volete, Ciriello, de Broglie, Salazar, o come diavolo preferite che vi chiami?»

«Ho già ottenuto ciò che voglio: sono entrato in casa vostra e ora nessuno mi può impedire di fare ciò che è necessario».

«Posso fare di voi un uomo ricco».

Un uomo ricco.

Quelle parole magiche erano state per Eliardo la stella polare della sua vita. Lui non era quello da ammazzare, lui era quello da corrompere. «Di quanto stiamo parlando?». Abbassò la voce, quasi qualcuno potesse udirlo.

«Ventimila scudi?».

L’alchimista si spostò dal pianoforte. «Valgo così poco, per voi?».

Aldobrandini si accigliò. Per un istante pensò che, forse, allora, era davvero questione di soldi. Sarebbe stato sufficiente offrirgli di più, per salvarsi? «Quarantamila scudi», propose, senza neppure valutare la ricaduta di quell’enorme cifra sulle sue finanze.

E a quel punto Eliardo scoppiò in una risata. «Ci avete creduto, cardinale?». L’alchimista tese il braccio tanto da rendere visibile la canna lucente della pistola. «Sarò sincero, in un’altra occasione avrei anche potuto cambiare idea e risparmiarvi la vita. Ma non mi fido di voi: tutto l’oro del mondo non serve, se si è sotto terra».

I muscoli di Aldobrandini si contrassero in una smorfia. Per la prima volta in vita sua, senza via di scampo, si vide al cospetto di Nostro Signore. Lanciò un’occhiata verso la scala, per verificare se qualcuna delle sue guardie stava eventualmente arrivando. Ma non era così. Erano soli. Valutò le alternative e in ognuna finiva con un proiettile in corpo… a meno che… Era un’opzione pericolosa, ma a mali estremi…

“Le mie priorità sono cambiate, sono diventato padre”, avrebbe voluto aggiungere Eliardo, ma se lo risparmiò. «Sono certo, senza offesa», notò invece, «che lasciandovi libero prima o poi mi fareste piantare una palla nella schien…».

Non riuscì a finire la frase che il cardinale scattò velocemente verso la finestra.

«Fermatevi», ingiunse Eliardo, senza capire cosa avesse in mente.

Aldobrandini lo ignorò. Con una rapidità che sorprese l’alchimista, la aprì e scavalcò il parapetto. Davanti a lui, i lavori di riammodernamento della facciata avevano richiesto l’installazione di un ponteggio di legno. Non era molto distante, sarebbe bastato allungare il passo e poi scendere dalla scala degli operai. L’alchimista non gli avrebbe certo sparato sotto gli occhi di tutti. E oltretutto, il carro che aveva visto poco prima era ancora lì, carico di covoni di paglia che avrebbero potuto attutire il suo peso nel caso qualcosa fosse andato storto.

«Non muovetevi o sparo», ordinò ancora Eliardo, incredulo. Davvero Aldobrandini, con la sua imponente stazza, voleva uscire sul cornicione? Non si trovavano molto in alto, ma l’alchimista la giudicò comunque una follia.

Il cardinale si sporse in avanti. Si piegò sulle ginocchia e allungò il passo.

Un bel balzo sarebbe bastato. Ma per ottenerlo sarebbe stato necessario un fisico allenato e muscoli tonici. Il protettore non aveva né uno né gli altri. In un istante scomparve così alla sua vista. Uno scricchiolio di ossa rotte arrivò repentinamente fino alla finestra del primo piano.

Eliardo si affacciò e constatò, incredulo, che il problema Aldobrandini si era risolto da solo, senza sparare neppure un colpo. Era stato anche abbastanza sfortunato: la trave del ponteggio, forse non ben legata, si era staccata e lui era precipitato di sotto. Doveva aver mancato il carro di paglia di poco, visto che adesso era sdraiato lì accanto, contorto sui sampietrini. Forse aveva battuto la testa, a giudicare dalla macchia di sangue che si stava allargando attorno al capo.

«Aiuto», urlò una voce.

«Qualcuno è caduto», ammonì un altro.

L’alchimista ripose la pistola nella marsina, fece frullare nell’aria il fine mantello e con calma guadagnò l’uscita.