Capitolo 21
Palazzo di Venezia, rione Pigna, giovedì 20 gennaio 1763.
Poco dopo l’alba.
Il palazzo di Venezia, la sede dell’ambasciata della Serenissima, svettava maestoso con i suoi muraglioni rossi sulla piazza imbiancata. La neve di quella notte si era posata sulla torre della Biscia e aveva avvolto la facciata merlata in un gelido silenzio. Aveva soffocato tutto, eccetto l’imponente carrozza nera, bardata con i simboli della Santa Sede, che si era fermata proprio sotto il balcone.
«Sua eminenza, prego, entrate pure». Due valletti infreddoliti aprirono il cancello e sganciarono la scaletta della carrozza. Appena il cardinale Aldobrandini di Carpi scese, stretto nel suo abito porpora, gli fecero strada fino al viridario. Sotto il doppio loggiato che ricordava l’architettura del Colosseo, il maestro di casa aspettava serioso.
«L’ambasciatore Giustinian vi attende con impazienza», dichiarò, subito dopo essersi adoperato in una riverenza.
Aldobrandini annuì, rapito dalla statua del leone di San Marco che ruggiva al centro del giardino. L’invito giunto dal palazzo di Venezia era stato del tutto inaspettato. La morte del camerlengo aveva complicato le cose, certo, ma se fosse riuscito a mettere le mani sulla cedola avrebbe forse potuto porvi rimedio. Tutto dipendeva dal fatto che il documento fosse nominativo o al portatore. Ma per saperlo doveva trovarlo… Due giorni prima aveva così ordinato a padre Ruffo di reperire informazioni su chi aveva consegnato l’oro al carbonaio, che aveva innescato quegli eventi. Ennio Massimo Viviani e i suoi scagnozzi si erano messi subito al lavoro: avevano cercato notizie su un gigante biondo con il simbolo di Maria Teresa sul mantello e una nobildonna di nome Lucia Bianchini. Avevano perfino offerto una ricompensa di cinquanta scudi, il doppio della paga mensile di un funzionario papale, a chi avesse fornito ragguagli sul loro conto. E a sorpresa, invece che un millantatore qualunque, era arrivato un biglietto dall’ambasciatore della Serenissima.
Salito al piano nobile a seguito del maestro di casa, Aldobrandini fu accompagnato in un’infilata di stanze di rappresentanza. Attraversò la sala dei Paramenti, che conteneva un tempo i paramenti sacri del pontefice, e la sala delle Fatiche d’Ercole. Gli splendidi fregi da cui prendeva il nome correvano sotto la copertura lignea come un cappello dorato sulla fronte di un nobile. Alla fine fu fatto accomodare nella sala del Pappagallo, dove Paolo II custodiva il suo esotico animale da compagnia.
Si guardò attorno e tra le statue, le decorazioni, gli ori, i marmi e i tendaggi drappeggiati controllò a uno a uno i numerosi occupanti. Oltre a lui, nella sala c’era un paio di capannelli di nobili imparruccati che attendevano di conferire con l’ambasciatore. Udì qualche battuta sul tempo – inclemente, dicevano, e al quale come i romani neanche i veneziani erano avvezzi – e si sistemò nei pressi del camino. Non dovette attendere molto, perché un giovanotto in livrea impeccabile gli si avvicinò per sussurrargli qualcosa.
Il protettore del Sacro Monte di Pietà annuì e lo seguì fino alla sala del Mappamondo, in cui si apriva il balcone che dava sulla piazza. Prima che il palazzo fosse ceduto ai veneziani, da lì i pontefici si affacciavano per vedere l’arrivo dei “barberi”, nella celebre corsa ippica lungo via Lata. Adesso invece, in un salottino veneziano sulle tinte del rosso, in luogo del pontefice lo attendeva un diplomatico molto stimato in città.
«Sua eminenza, mi fa molto piacere siate riuscito a venire». Girolamo Ascanio Giustinian lo salutò calorosamente con un grande inchino. Era un uomo sulla quarantina, con un piglio furbo da politico navigato. Indossava una velata ricamata viola, pantaloni stretti sotto il ginocchio e vistose scarpe di capretto con tacco e fibbia d’argento. Sorrideva.
«La vostra missiva mi era parsa interessante, in effetti».
«Prego, accomodiamoci. Gradite una cioccolata?». L’ambasciatore si sedette nella poltrona subito dopo il cardinale e accavallò le gambe. «Con questo freddo è un vezzo piacevole».
«Vi ringrazio, accetto di buon grado». Aldobrandini s’inumidì le labbra con la lingua, pronto a cominciare la conversazione con ciò che gli stava più a cuore. «E dunque, avete qualche informazione su chi ha aggredito i miei uomini?»
«Quando mi è giunta voce che c’era una taglia su un gigante biondo e una donna di nome Bianchini, mi è venuto in mente un aneddoto di qualche tempo fa».
«Mettere sul piatto premi in denaro agevola sempre l’acquisizione di informazioni, anche se non speravo certo di averle da un uomo del vostro calibro», sorrise il cardinale.
L’ambasciatore si fece dare un incartamento dal servitore che si era sistemato silenziosamente dietro di lui. «Un paio di estati fa, nell’agosto del ’61, ricevetti questa lettera da Venezia». Tamburellò con le nocche sulla carta ingiallita e poi la consegnò al cardinale. «A scrivere era il Missier Grande Mattio Mellan, il capo dei birri della Serenissima. Questioni di Stato l’avevano spinto ad allertare le ambasciate di Roma, Napoli e Milano alla ricerca di alcune persone».
Aldobrandini lesse velocemente il documento, datato 8 agosto 1761, e finì la frase dell’ambasciatore: «Un soldato di “stazza imponente” e una certa Lucia Oldrini?»
«Esatto. Ma non solo loro: oltre a quelli che avete menzionato, per altri due ricercati sembrava ci fosse maggior interesse: una nobildonna rispondente al nome di Anne-Marie Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale, e un sedicente alchimista. Filippo Salazar, pare si chiamasse realmente, anche se era conosciuto come Eliardo de Broglie».
«Questi nomi mi suonano del tutto nuovi e, come avrete saputo, io cerco notizie su una donna dal cognome differente: Lucia Bianchini, se non m’inganno…».
«Lo so bene, e ad attirare la mia attenzione, oltre a quel nome, sono le indicazioni che lo stimato Missier Grande inserisce nella seconda pagina: l’uomo, “di grande stazza e dai capelli d’oro”, al momento della scomparsa indossava un mantello nero con ricamata l’aquila a due teste, simbolo dell’imperatrice».
Il cardinal protettore sorrise. Anche gli scagnozzi di Viviani avevano parlato di quel simbolo, che non a caso era stato inserito nelle informazioni della taglia. Non era un granché come indizio, eppure a quanto pareva era stato utile… «Il nome Lucia Oldrini, ricercata da Venezia, in effetti ricorda un po’ la mia Lucia Bianchini…».
«È quello che ho pensato anch’io… Come se la ragazza avesse dovuto trovare in fretta un nome fasullo».
«Di cosa sono accusati, se posso permettermi, questi ricercati?»
«Gravi crimini contro la Repubblica. La contessa, in particolare, era stata arrestata, ma grazie al gigante è riuscita a fuggire. Poco prima, parlando con il compare de Broglie, l’avevano udita programmare una fuga a Roma, Napoli o Milano… da qui le tre lettere di cui io sono uno dei destinatari».
Più il cardinale parlava con l’ambasciatore, più si convinceva che Giustinian poteva avere ragione. «Vi ringrazio molto: mi avete fornito elementi interessanti. Soprattutto riguardo alla nobildonna».
«In verità, è proprio lei, la contessa d’Aumale, che i miei concittadini cercano con grande interesse. È una ricca ereditiera e pare sia una spia francese. Una donna molto pericolosa, si dice…».
Aldobrandini annuì, setacciando la piazza deserta nel vento ruvido fuori dalla grande finestra.
«Non conosco la ragione per la quale li state cercando. E non mi interessa», proseguì Giustinian, «ma con i vostri mezzi sono certo che li troverete».
«Siete certo che li troverò… È per questo che mi avete invitato?»
«Ci tenevo a vedervi perché, se doveste avere notizie, gradirei essere informato. Un gesto di cortesia, se vogliamo. Il doge ve ne sarebbe riconoscente…».
«Anne-Marie Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale, quindi…», mormorò Aldobrandini, dando l’impressione di non avere udito le ultime parole dell’ambasciatore. «Una ricchissima ereditiera».
Che fosse lei la nobildonna che doveva ringraziare per avergli sottratto l’affare con il camerlengo?