Capitolo 33

Palazzo Madama, rione Sant’Eustachio. Mercoledì 9 febbraio 1763.

All’imbrunire, diverse ore dopo la cattura dell’alchimista.

Eliardo si sedette per terra e strinse le ginocchia al petto.

Si trovava in una stanza al secondo piano di palazzo Madama. Non assomigliava affatto alla cella di una prigione, ma piuttosto a un ufficio sgombro da mobili. Il pavimento era in legno, sconnesso e mangiucchiato dalle tarme. L’unica finestra era protetta da una sbarra di ferro.

Ecco, ancora una volta era nei guai per colpa della contessa. Tutto si sarebbe potuto aspettare tranne che rivedere il viso del capitano Van Axel. L’ultima volta che si erano incontrati, se così si poteva dire, era stato a Venezia nell’estate del ’61, un anno e mezzo prima. I birri avevano arrestato Annika dopo aver scoperto le sue doti divinatorie. Una delle ipotesi che lei aveva elaborato, infatti, riguardava il doge Francesco Loredan. Secondo i suoi calcoli sarebbe morto pochi mesi dopo, e così il Missier Grande e il capitano Van Axel avevano sperato di poterlo salvare con il suo aiuto.

«Potremmo usare dardi imbevuti con il liquor anodynus mineralis», aveva proposto Eliardo a Rudolf, appena avevano saputo che Annika sarebbe stata trasportata alle prigioni a bordo di una bissona degli zaffi.

Il gigante biondo aveva grugnito, incerto.

«È un sedativo a base di etere e alcol», aveva spiegato Eliardo. «Aspettiamo i birri nascosti sulle fondamenta di palazzo de Camerlenghi, li colpiamo con le freccette e quando si addormentano liberiamo la contessa».

Così avevano fatto. La notte del 22 luglio 1761, solo tre giorni dopo l’arresto di Annika, la flottiglia di imbarcazioni capitanate da Van Axel aveva imboccato il Canal Grande. Quando erano passati davanti alla riva del Vin alcuni birri erano stati colpiti con l’anestetico ed erano caduti in mare.

La contessa, incappucciata, non aveva potuto vedere la scena, ma aveva sentito le voci indistinte degli zaffi, impegnati a combattere un nemico invisibile.

Van Axel aveva impartito ordini ai suoi uomini, ma era stato tutto inutile. Quando la sua barca era in balia dei dardi, alla deriva al centro del canale, la contessa era finita in acqua. Con le mani legate sarebbe certamente affogata, ma gli aggressori erano usciti allo scoperto e tuffandosi l’avevano salvata. Nel frattempo una gondola aveva abbordato l’imbarcazione a otto remi e Rudolf era saltato sul ponte.

E a quel punto qualcosa era andato storto: mentre il gigante si sporgeva per afferrare la contessa, il capitano era ancora cosciente. L’ultima cosa che aveva visto, prima di perdere i sensi per effetto di un dardo, era stato il suo mantello e il simbolo di Maria Teresa d’Austria: proprio quello stemma, che l’ex soldato portava sempre all’altezza del cuore, gli era costato la cattura.

Un chiavistello girò nella serratura e la porta si aprì cigolando.

Eliardo alzò il mento e osservò la piccola delegazione che entrava lentamente. C’erano un religioso che non aveva mai visto, due birri armati di tutto punto e padre Ruffo. Dietro di loro, avvolto in una lunga cappa, comparve anche Lodovico Van Axel con quel suo sguardo da nobile altolocato. Fu proprio lui a parlare.

«Egregio messer Salazar», cominciò, «e così ci rivediamo».

Eliardo sbatté le palpebre. Nonostante la situazione, il suo viso furbo era volutamente sfacciato.

«Vi ho cercato a lungo, ma alla fine tutti i nodi vengono al pettine».

«Mi cercavate?», si informò, con distacco, come se stesse pensando a tutt’altro. Si concentrò sulla lunga crepa che dallo stipite della porta raggiungeva il muro. «Da quanto ricordavo, mi pareva di aver chiuso i conti con la Serenissima».

Era la verità: poco prima di impegnarsi per far evadere la contessa, Eliardo si era accordato proprio con Van Axel e il suo capo Mellan: era stato lui, infatti, in cambio della grazia, a farla arrestare. Salvo pentirsene poco dopo e liberarla nella speranza che lei gli insegnasse quello che sapeva sul Libro del destino.

«Avevamo raggiunto un accordo, è vero», ammise il veneziano. «Ma voi lo avete violato: avete fatto fuggire la contessa d’Aumale e poi siete scomparso».

«Non so davvero di cosa state parlando».

«Non siete stato voi a escogitare il trucchetto dei dardi avvelenati, a ponte di Rialto?».

Eliardo sorrise e, restando seduto per terra, incrociò le braccia sul petto. «Mi avete forse veduto con una cerbottana?».

Van Axel sorrise. No. Non lo aveva veduto e non aveva veduto altri al di fuori di Rudolf… ma chi poteva avere escogitato quel piano, se non l’alchimista? L’uomo che li aveva già giocati una volta? «Parliamo della ragione per la quale vi trovate qui oggi».

Eliardo alzò il mento con aria di sfida. Lo tenne talmente alzato da sembrare che stesse esaminando il taglio di capelli del capitano. «Sono qui perché la mia proposta d’affari non è piaciuta a qualcuno».

«Vi sbagliate. Siete qui perché non c’era alcun affare…». Van Axel inclinò la testa di lato. «Eravate al Monte di Pietà per conto della vostra amica, amante, padrona. Come devo definirla?»

«È pura fantasia. Io sono un mercante adesso…».

«Sappiamo del cardinale Colonna di Sciarra e degli ottantamila scudi», illustrò Van Axel. «C’è di mezzo la mano della contessa: si è fatta lasciare i beni da un uomo che i suoi vaticini giudicavano prossimo alla morte. Conosciamo già il sistema».

«Volevate imbrogliarci con il vostro oro fasullo?», rincarò la dose padre Ruffo, un passo dietro il capitano. «Qual era la vostra vera intenzione?»

«Ve lo ripeto, lorsignori sono caduti in errore: state parlando con la persona sbagliata».

Van Axel scambiò un’occhiata con il religioso e fece un passo avanti, sfoderando il pugnale. «Voi agite per conto della contessa. Non mentite!».

Per un istante, Eliardo valutò l’alternativa di dire la verità. Dopotutto, cosa aveva da guadagnare a proteggere ancora Annika? Per aiutarla era finito nuovamente nei guai. Ormai quella era una costante nei loro rapporti. Se l’avesse tradita, però, se avesse ammesso di sapere dov’era, avrebbero davvero creduto che lui era estraneo all’evasione di Venezia? Nonostante nessuno l’avesse visto con i dardi, non sarebbe stato più semplice accusarlo anche di quello? Decise che valeva la pena continuare a negare.

«Ieri vi hanno seguito, lo sapete?», spiegò con calma padre Ruffo. «Dopo il vostro colloquio con il cardinal protettore, i miei uomini vi hanno tallonato. Lo facciamo sempre con gli investitori che non conosciamo… a volte scopriamo dettagli interessanti».

«Dove c’è denaro, di solito ci si espone a truffe». L’alchimista usò le esatte parole che Aldobrandini aveva riservato a lui, quando aveva chiesto informazioni sulle sue attività di mercante.

Ruffo annuì. Il suo ritorno a Roma proprio nel giorno della visita di messer Ciriello al Banco era stato provvidenziale. Grazie a Van Axel, che l’aveva accompagnato da Venezia, aveva scoperto che non era chi affermava di essere.

«Siete entrato in un bel palazzo di travertino a piazza Colonna. Pare ci viva una certa baronessa d’Acoz in compagnia di due levrieri».

«Ve la faccio breve», si intromise il capitano. «Abbiamo il sospetto – ben più di un sospetto, in realtà – che questa baronessa sia in realtà la contessa d’Aumale».

Eliardo scoccò un’occhiata prima al prete, che stava pulendo i suoi occhialini rotondi con un lembo della toga, e poi a Van Axel. In tutto quel racconto c’era un dettaglio che non tornava affatto. «Ma se sapete già dove trovarla… cosa volete da me?».