Capitolo 15
Ponte Sant’Angelo, rione Borgo. Quello stesso giorno, alcune ore dopo.
Metà mattina, ora italica 18:00.
L’unico ad andarle incontro fu il piccolo Domenico.
Abbigliato come un damerino, in marsina e giustacuore damascato, la attendeva dalla parte opposta di ponte Sant’Angelo, in piedi davanti alla carrozza.
«Lucia», urlò, cominciando a correre, incespicando sui sampietrini. «Lucia, sono contento che state bene».
«Ciao, Domenico», gli sorrise lei, ancora dolorante e stretta nel suo mantello. Si fermò poggiandosi al parapetto di travertino del Bernini. Abbracciò il bambino e al contempo ne approfittò per guardarsi attorno: il Tevere scorreva rumoroso, con detriti che si facevano largo tra i lastroni di ghiaccio ai piedi di Castel Sant’Angelo. Attraverso piazza di Ponte, dalla parte opposta, carrozze e carretti transitavano velocemente. A prima vista nessuno la stava seguendo, ma non poteva esserne certa. Soprattutto perché aveva affrontato un lungo tragitto a piedi per essere nel luogo dell’appuntamento all’ora prestabilita.
Anche se a Roma era stato installato il primo orologio “alla francese” da quasi vent’anni, la cosiddetta “ora italica” godeva ancora del favore della Chiesa: si trattava di una convenzione che legava l’inizio della nuova giornata – l’ora prima, appunto – al tramonto. Detta ora dell’Ave Maria, variava a seconda dei periodi dell’anno. Visto che il messaggio che le era stato recapitato diceva di trovarsi a ponte Sant’Angelo tre ore dopo l’alba, l’ora convenuta erano le diciotto italiche. Era in perfetto orario.
Lucia tese una mano al bambino e raggiunse la carrozza nera, priva di segni distintivi. I due imponenti cavalli dal manto lucido sbuffavano al freddo. Salutò Rudolf che l’attendeva all’interno del mezzo e, guardandosi ancora attorno, si accomodò sul divanetto di velluto.
La carrozza si mosse immediatamente. Per raggiungere piazza Colonna attraversarono i vicoli operosi del centro, passando prima da piazza Navona e poi dal Pantheon. Si lasciarono alle spalle stradine tortuose fiancheggiate da edifici popolari e palazzi borghesi. Erano trafficate da cittadini affaccendati, uomini d’affari in giubba e dame avvolte nei mantelli.
«Durante la vostra assenza ho dato io da mangiare ai vostri pennuti», ridacchiò Domenico. Si riferiva ai cinque piccioni che Lucia accudiva in due grandi gabbie sulla terrazza di palazzo D’Acoz. «Eravamo tutti ansiosi del vostro ritorno. Anche Madame d’Acoz era preoccupata per voi. Sarà contenta di vedervi in salute».
Lucia annuì, mostrando gli incisivi. Anche lei era contenta di rivedere Domenico e del fatto che i suoi piccioni stessero bene. Per quanto riguardava la contessa d’Aumale, invece, le cose stavano diversamente. Sapeva di dovere molto a quella donna, ma se c’era una cosa di cui era certa era che non si preoccupava mai di nessuno al di fuori di sé stessa. Per lei, le persone che le ruotavano attorno, servitori ma anche amanti – nei rari casi in cui ne aveva –, erano poco più che animali da compagnia. Quella era la ragione per la quale era sempre sola.
No, Madame d’Acoz non era certo preoccupata per lei come aveva affermato Domenico. Piuttosto, era preoccupata che tutto andasse secondo i suoi piani. Come sempre.
In piazza di Pietra la carrozza rallentò e Lucia ne approfittò per scostare la tendina e sbirciare fuori. Ai piedi del colonnato del tempio di Adriano c’erano diversi frati elemosinieri che sostavano davanti cumuli di neve. Poco distante, attirarono la sua attenzione alcuni popolani che protestavano rumorosamente: da quanto riuscì a capire, ce l’avevano con la guerra che durava ormai da sette anni, a loro dire responsabile, assieme a quel gelido inverno, della carestia.
Lucia li ignorò e si preoccupò invece di cercare eventuali estranei che si fossero accodati alla carrozza. Non notò nessuno: se la stavano seguendo, lo stavano facendo in modo estremamente discreto.
Giunti a piazza Colonna, i cavalli nitrirono e il cocchio si arrestò tra schizzi di fanghiglia.
Il palazzo che Madame d’Aumale aveva acquistato, intestandolo a uno dei tanti prestanome, era a fianco della chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro. Raggiunse a piedi il portone in noce. Appena entrata, scortata da Rudolf, si trovò di fronte la contessa.
«Avete eseguito le istruzioni alla lettera?», le domandò gelida, immobile sul primo gradino della scala di marmo. Era stretta in un corpetto di pizzi e merletti color aragosta, senza parrucca e con una pelliccia d’ermellino a coprire le spalle. Il suo collo nudo le ricordò un cigno, da quanto era altezzosa.
Lucia annuì. «Esattamente come avete comandato, contessa».
«Allora dobbiamo solo attendere».
La giovane dama di compagnia mosse un passo sul marmo e i due cani che stavano dietro alla padrona le andarono incontro, scodinzolando. Tutto sommato, qualcuno era contento di vederla…
«Appena arriva», proclamò a quel punto la contessa, «mandatelo nel salotto verde. Lo attenderò lì».
“Siete sicura che arriverà?”, avrebbe voluto domandare Lucia. Non ne ebbe né l’ardire né il tempo, perché nello stesso momento qualcuno bussò alla porta.
Annika si fermò a metà scala e aspettò che Lucia aprisse.
«Voi?», proclamò con finta sorpresa la giovane, appena riconobbe l’uomo sulla soglia. «Mi avete seguita?».
Costante Altieri accennò un inchino. «Non sareste uscita a piedi dall’ospedale, se non lo aveste voluto…». Il bargello la fissò malizioso, per poi sbirciare all’interno dell’androne. C’era una dama e un gigante biondo, ancora con il mantello addosso. «Dopotutto, vi avevo chiesto dove abitavate, ma siete stata evasiva…».
«Rudolf, fatelo entrare», ordinò Annika, ormai giunta in cima alla scala. «Bargello, venite, vi stavo aspettando».