Capitolo 17
Non lontano dal Colosseo, rione Campitelli. La sera di quello stesso giorno.
Tre ore dopo l’Ave Maria.
I campi incolti, gli orti e le vigne attorno all’anfiteatro Flavio erano rischiarati da una luna color argento. La strada era stretta come una carraia, con solchi profondi coperti alla meglio da ghiaia e terra. Il cielo stellato e il gelo facevano luccicare d’azzurro i monconi delle colonne imperiali che qua e là sbucavano tra il selciato e la vegetazione.
Il bargello, in groppa al suo cavallo, procedette al piccolo trotto. Abitava non lontano dal tempio della Pace, in un vicolo di case e casupole popolari. Molti giudicavano pericolosa quella zona, ma ovviamente non Altieri, che giornalmente faceva i conti con delinquentelli di piccolo taglio.
«Non tornate a case vostra, datemi ascolto». Per quanto avesse deciso di lasciare inascoltate le parole della baronessa, Altieri continuava a ripensarci. Quella donna era stata con lui un muro invalicabile. Certo, per spingerla a tradirsi, lui l’aveva provocata, gettandole addosso accuse non troppo circostanziate. Teorie e nessun fatto. Niente che la collegasse realmente a Della Valle o al camerlengo, a eccezione del suo servitore Rudolf e del piccolo simbolo con l’aquila gialla sul suo mantello.
«Vi sto solo avvertendo», aveva tuonato la nobildonna. Tutto si sarebbe aspettato, compresa qualche rimostranza per le sue accuse. Avrebbe potuto perfino rivolgersi al governatore, accusandolo di chissà quale offesa. Invece niente, aveva negato tutto senza mai tradirsi e poi si era limitata a quell’avvertimento.
Il bargello scosse il capo. Era una minaccia o davvero un consiglio? Poco importava: dopo una giornata inconcludente, in cui aveva girato a vuoto tra informatori che ne sapevano meno di lui, era stanco e aveva deciso di tornarsene a casa. Lui aveva sangue contadino nelle vene e non era tipo da lasciarsi intimorire.
Il cavallo lambì l’arco di Costantino e si ritrovò di fronte gli ambulacri esterni del massiccio Colosseo. Quella zona era utilizzata perlopiù come ricovero per gli animali e serra a cielo aperto. Tra le arcate del grande anfiteatro sbucavano cespugli e foglie di ogni risma. Di tanto in tanto, si sentiva anche il belato o il muggito di qualche animale.
Proseguì senza rallentare e, una volta giunto alle rovine di quello che si credeva il tempio di Iside, si infilò in una vigna per accorciare la strada. Smontò da cavallo e procedette a piedi. Da lì si vedevano molto bene i resti dei palazzi dell’era repubblicana che punteggiavano il Palatino. Nei secoli, i romani li avevano smontati pietra su pietra, utilizzando i materiali come serbatoio di marmi pregiati. Era nato perfino un mercato parallelo e molti ecclesiastici facevano a gara per assicurarsi i pezzi migliori.
«Bargello». Un popolano, con cuffia in testa e una giubba, lo chiamò. Abitava poco lontano da casa sua e stava seduto sul gradino di una chiesa, con una crosta di formaggio e un tozzo di pane tra le mani.
Altieri lo riconobbe. Era uno dei suoi confidenti, tale Achille Anniballi.
«Achille, buonasera». Si avvicinò, tirando il cavallo per le briglie. «Avete qualcosa per me?».

Poco dopo, due tangheri intrufolatisi nella casa di Altieri udirono un netto scalpiccio di passi, in strada.
Erano entrati senza troppa fatica forzando una vecchia serratura. Avevano atteso al buio, nell’unica stanza al piano terra di un palazzo popolare.
Che quella fosse l’abitazione di un uomo solo era estremamente chiaro. La stufa di ferro con i tubi che salivano verso il soffitto era sporca e annerita. Sul tavolo troneggiavano due fiaschi di vino vuoti e un piatto con resti di cibo. Non c’erano oggetti di pregio, fatta eccezione per un crocifisso di legno appeso al muro, dipinto sulle tinte dell’oro e del rosso.
«Trovatelo», aveva ordinato il cardinale Aldobrandini, dopo aver interrogato quella donna. «Portatemi la cedola. Se ce l’ha davvero Er Dalmata, deve morire».
Il loro capo era stato a palazzo Madama a cercare il documento e non l’aveva trovato. Se era così di valore, la conseguenza più logica era che il bargello lo avesse nascosto a casa sua. La ricerca in quei pochi averi era stata però infruttuosa: prima di appostarsi, in attesa che tornasse, i due malfattori avevano frugato nell’armadio e nel materasso. Nella credenza e nei cassetti. Senza trovare nulla.
E adesso erano lì, nascosti ai lati della porta con i coltelli in mano. Poco prima, qualcuno aveva bussato e loro non avevano aperto. Era possibile che fosse ancora un falso allarme, un vicino che cercava il bargello?
Il cavallo nitrì.
Altri passi.
Una chiave nella toppa.
No. Non era un falso allarme.
Il battente cigolò e si aprì lentamente.
«Nun te move», ingiunse il più alto dei due. Piantò una mano nerboruta sulla nuca dell’uomo appena entrato e la lama sul collo per immobilizzarlo.
La reazione fu però imprevista. Il mantello si scostò e nel buio una pistola luccicò nella mano del bargello. Almeno così credette l’aggressore, che nella penombra tentò di disarmarlo.
Il compare corse in suo aiuto. Spiccò un balzo e rotolò a terra insieme al padrone di casa. Il tavolo ondeggiò e un fiasco di vino cadde sul pavimento.
«Dalmata, fermatevi», intimò, mentre il bargello tentava di divincolarsi. Non ci riuscì perché i due tangheri erano forti. Più di lui.
Anche il secondo si avvicinò, provando a intervenire. «Gettate l’arma».
Non fu necessaria molta forza. Il suo compare rotolò sul pavimento. Una, due, tre volte. E alla fine un colpo di pistola, repentino e inatteso, soffocò prematuramente la zuffa. L’aria si riempì dell’odore acre della polvere da sparo e una nebbia bluastra si allargò nell’aria.
Increduli, i due malfattori si alzarono in piedi. Ansimavano.
Altieri era immobile, prono e con il viso incollato al pavimento. Era morto.
«Non dovevi ucciderlo», ringhiò tra i denti il più basso degli aggressori.
«È stato un incidente».
«Viviani se la piglierà con noi».
«No, se troviamo quel documento».
«Voltalo. Vediamo se ha addosso la cedola».
Il più alto afferrò il corpo senza vita e lo girò a favore della finestra, dove la luce della luna si insinuava obliqua. Il proiettile aveva lacerato il petto, all’altezza del cuore, trapassando casacca e mantello. Gli occhi erano spalancati, così come la bocca, dove un rivolo scarlatto lambiva la mascella e scorreva sul collo.
«L’hai trovata?».
Il collega sbatté le palpebre, incerto se frugare nella camisola intrisa di sangue.
«Guarda tu stesso», grugnì alla fine, indicando il corpo senza vita.