Capitolo 64

Campo San Samuele, Venezia, martedì 8 marzo 1763.

Tre settimane dopo la morte del bargello Altieri.

La gondola nera attraccò al molo di Campo San Samuele di prima mattina. Ne scese una delegazione di quattro uomini, tutti con parrucca alla cartesiana, marsina, calze di seta e scarpe con la fibbia lucente. Alla testa del gruppetto c’era il più anziano, che camminava aiutandosi con un bastone dal puntale d’argento. Lo teneva dritto, con l’estremità puntata sui masegni del campo.

«Siete sicuro che ci sia?», domandò in veneziano al giovanotto mingherlino che chiudeva la fila.

«Spesso passa qui la notte», confermò quest’ultimo.

L’anziano rizzò le spalle e fece spaziare lo sguardo sul piccolo campo, illuminato dai primi sprazzi del giorno. Una domestica, con un pesante cesto che tornava da Rialto e un giudeo del ghetto riconoscibile per l’abito nero, erano gli unici occupanti. In fondo si erigeva la chiesa di San Samuele con la facciata essenziale e il campanile slanciato e, ad angolo, affacciato sul Canal Grande, sorgeva l’austero palazzo Malipiero. Era proprio in quell’edificio bizantino a tre piani, uno dei più antichi del sestiere, che erano diretti.

«Bussate, Giuseppe».

Il giovane si avvicinò al portale di terra del palazzo, sovrastato dallo scudo scolpito della famiglia, e azionò il batacchio.

Trascorsero alcuni secondi e venne ad aprire il maestro di casa. Nel trovarsi di fronte tutti quei gentiluomini a quell’ora del mattino ebbe un istante di stupore. Ma lo mascherò dietro un’espressione impettita. «Desiderate?».

L’anziano, la gobba coperta da una velada viola di velluto, fece un passo avanti. «Sono Edoardo Van Axel», annunciò, fiero. «E questo è mio genero Giuseppe. Mi dicono che il Missier Grande è qui: ho urgente bisogno di parlare con lui».

Il maestro di casa accennò un inchino. Non tutti a Venezia sapevano del rapporto che Mattio Mellan aveva instaurato con la padrona di casa, la vedova Malipiero, quindi quella domanda lo colse di sorpresa. «Messer Van Axel, ben arrivato. Temo vi siate sbagl…».

«Fallo entrare, Anselmo». La voce di Matilde Malipiero, proveniente dall’androne, interruppe il domestico. «Edoardo», aggiunse subito dopo, facendo capolino dalla porta, «che sorpresa. Prego, accomodatevi».

Attraverso un ampio scalone, la piccola delegazione fu accompagnata in un pòrtego del piano nobile. Subito dopo, il maestro li introdusse in un locale attiguo, più piccolo ma non meno sfarzoso. Il pavimento luccicava ai raggi obliqui che penetravano dalla polifora, riflettendo il bassorilievo con il leone di San Marco che adornava il camino.

«Cosa vi porta qui così di buon mattino?». La padrona di casa si strinse nella vestaglia di seta verde. I capelli, privi di parrucca, erano raccolti in un’elaborata acconciatura e il viso era tirato come quello di una bambola.

«Abbiamo urgenza di parlare con messer Mellan», rispose Edoardo Van Axel. «Perdonate la mia intrusione mattutina, Matilde, ma è questione di estrema importanza». Era stato amico del defunto marito della padrona di casa e conosceva abbastanza bene anche lei, tanto da poter rinunciare all’etichetta e presentarsi di sorpresa.

«È per vostro figlio?», suppose, ancora in piedi, la vedova.

«Portate notizie di Lodovico?». La voce maschia di Mattio Mellan lo precedette. Il Missier Grande entrò nel salotto con indosso un elegante giustacuore orlato d’argento e la parrucca ben sistemata sul capo. Non dette spiegazioni sul motivo per il quale era a palazzo Malipiero, ma non gli interessava fornirle. Sapeva che a Venezia quelle storie alimentavano le ciaccole nei salotti, ma visto che erano entrambe persone sole riteneva che non ci fosse nulla di male.

Il padre del capitano Van Axel si alzò in piedi per salutare Mellan e le nocche della sua mano divennero bianche da quanto strinse il pomello del bastone per l’agitazione. «Sì, riguarda Lodovico. E purtroppo non sono buone notizie».

Mellan ingoiò amaro. Non aveva avuto la benedizione di un erede e Lodovico era per lui come un figlio. «Cosa è accaduto? Non ricevo sue notizie da quasi un mese».

Edoardo Van Axel estrasse dalla velada una lettera e la porse al Missier Grande. «È rimasto ferito in battaglia», spiegò tremebondo l’anziano, mentre Mellan cominciava a leggere. «L’abbiamo ricevuta questa mattina. Mi scrive il marchese Antoniotto Botta Adorno, il reggente del Granducato di Toscana. Afferma di aver impiegato del tempo a risalire all’identità di Lodovico».

«Qui dice che si trova a Siena».

«È così. Ha subìto un colpo alla testa e pare sia in uno stato di incoscienza, anche se in condizioni stabili».

Mellan chiuse gli occhi per un istante. Si sentiva in colpa perché era stato lui a mandare Lodovico in missione. Tutto sempre a causa di quella donna… «Dobbiamo riportarlo a Venezia».

«Sono qui proprio per questa ragione: come sapete la mia famiglia ha una certa influenza nella Serenissima, ma non nel Granducato di Toscana».

«Eccellenza», intervenne Giuseppe, appollaiato su una delle poltroncine. «Conosciamo il vostro rapporto di amicizia con Lodovico. Per questo vorremmo da voi una lettera per il presidente del Consiglio di Reggenza del Granducato. Dovreste, se possibile, spiegare che mio cognato era in missione per conto della Serenissima e che vorremmo poterlo curare qui a Venezia».

Mellan si massaggiò l’attaccatura del naso. Dietro di lui, la padrona di casa gli strinse le spalle in un gesto d’affetto. «Farò molto di più», concluse. «Verrò di persona e riporterò a casa Lodovico. Sono sicuro che con le cure dei nostri medici si riprenderà presto».