Capitolo 69

Al largo dell’isola di Creta, giovedì 1º marzo 1764.

Cinque settimane più tardi.

«Nave in vista a babordo», gridò dalla coffa uno dei marinai, rompendo lo sciabordio ritmico dei remi sull’acqua.

Il capitano, in quel momento sul ponte, verificò con il cannocchiale che teneva al collo e poi diede ordini al timoniere. Nel giro di pochi attimi gli addetti alla manovra si mossero all’unisono, azionando verricelli e cime e impartendo indicazioni ai rematori.

La galea pontificia, una montagna d’oro, adornata con sculture, damaschi rossi, frange e trine, virò di qualche grado e assunse una rotta d’intercettazione.

«È veneziana?», domandò Ennio Massimo Viviani. Portava una vistosa fasciatura all’addome per la ferita rimediata in Toscana, ma era comunque voluto salire a bordo. Si era sistemato accanto all’ufficiale secondo in comando, poggiato alla battagliola del cassero.

«Batte bandiera veneziana, sì», rispose quest’ultimo appena le imbarcazioni furono sufficientemente vicine da avvistare il vessillo. «Sembra una fregata, è una trialbero a vela quadra».

Viviani annuì. Quel tipo di imbarcazione era compatibile con la flotta della Serenissima, ma anche, ed era quello che temeva, con le navi usate dai pirati barbareschi. Se davvero si trattava di una fregata, era sicuramente più veloce della galea sulla quale viaggiavano loro. Pur con ventotto banchi di rematori, infatti, la San Pio non poteva certo competere con il tredici o quattordici nodi che avrebbe potuto raggiungere la fregata. Ma, d’altra parte, era già stato difficile per il cardinale Aldobrandini convincere il commissario del mare a mettergli a disposizione una delle poche navi della flotta. Il papa, infatti, possedeva solo cinque galee, di stanza a Civitavecchia, che venivano usate perlopiù per pattugliare il Tirreno.

«Prestate massima attenzione», suggerì il capitano, che evidentemente condivideva le stesse preoccupazioni di Viviani. La pirateria, mai completamente debellata, affliggeva quei mari e non era raro che i barbareschi di Tripoli o Algeri viaggiassero sotto falsi vessilli. «La loro nave è più veloce della nostra: se non sono loro, non riusciremo a sfuggirgli».

Trascorsero diversi minuti di tensione, in cui la galea si avvicinò sensibilmente alla fregata. La nave veneziana scintillava sotto il sole, con le vele che garrivano al vento, e si muoveva lentamente con rotta circolare. Anche a occhio nudo, adesso, davanti alle garitte si vedevano marinai intenti nelle operazioni di manovra.

«Non mi sembra che indossino divise della marina veneziana», constatò l’ufficiale, con tono allarmato. I suoi stivali rimbombarono sull’assito della galea mentre si avvicinava al primo in comando.

Il capitano era immobile sul cassero, il cannocchiale stretto tra le dita e le labbra serrate. Il suo silenzio era inequivocabile. Rimuginò qualche istante e poi si rivolse di nuovo agli ufficiali. «Cambiamo rotta!».

«Ma capitano…». Viviani, accanto a lui, gli afferrò un braccio. «Cosa state facendo?»

«Eseguite l’ordine», urlò il capitano papale, ignorando Viviani. Due uomini corsero a testa basta e scomparirono sotto il castello. La galea rallentò e virò a tribordo, ma non a sufficienza.

«Non sono loro?». Viviani strinse il pugno attorno al braccio del capitano. «L’ordine del cardinale Aldobrandini è di intercettarli a ogni costo».

Il capitano si liberò della presa. «Guardate voi stesso…».

La frase fu interrotta a metà da una cannonata esplosa dalla fregata.

«Ancora fuoco!», strillò in arabo l’ufficiale addetto ai cannoni. Sulla fregata ce n’erano trentadue, sedici per lato. Soltanto cinque esplosero palle incatenate, che tra i fumi della polvere si incunearono nello scafo della galea.

Si susseguirono urli e poi esplosioni di moschetti, da un ponte all’altro.

«Sono lenti», constatò l’addetto alla manovra della nave pirata. Di fianco a lui, Rudolf adocchiò la chiglia sommersa della galea. «Hanno un pescaggio insolito. Sembrano appesantiti da qual-cosa».

In quel momento, il vessillo veneziano fu ammainato e al suo posto fu issata la bandiera nera piratesca.

I marinai barbareschi che Eliardo aveva assoldato si prepararono per l’abbordaggio. Alcuni erano armati di moschetti, ma la maggior parte di loro brandiva lame adatte al corpo a corpo. Ve ne erano poi diversi dotati di ganci e rampini, che sarebbero serviti quando le due navi fossero state sufficientemente vicine.

Alcuni schioppi vennero esplosi dalla galea, ma la fregata non modificò la sua rotta. Le due navi, adesso, erano a poche decine di braccia l’una dall’altra, quasi affiancate. La galea aveva già subìto danni a poppa, ma dal ponte i militari sembravano non essersene accorti. Avevano piazzato le loro armi da fuoco e cominciato a sparare, chini dietro il castello di prua.

«Fuoco», ordinò ancora il pirata. I cannoni da sei a dieci lanciarono nuove palle incatenate contro lo scafo della galea, che ondeggiò come schiaffeggiata.

Ma a quel punto anche dalla nave papale i cannoni cominciarono a sputare fiamme. Erano di minor calibro di quelli della fregata e l’eccessiva vicinanza delle due imbarcazioni rendeva disagevole utilizzarli. Ciononostante, una palla sibilante arrivò a bersaglio e colpì l’albero di mezzana della fregata, che si inclinò pericolosamente. Le cime si spezzarono e la vela si afflosciò sul ponte.

Le due navi erano ormai completamente allineate. Gli spari di moschetto sostituirono quelli di cannone. Si susseguirono ininterrottamente, con le due ciurme che si fronteggiavano senza esclusione di colpi.

E, a quel punto, i ganci furono lanciati dalla nave pirata. L’imbarcazione papale fu intrappolata in una rete di catene e la manovra di avvicinamento fu completata.

Vennero issate diverse passerelle, da poppa a prua, e i pirati vi corsero sopra, con urla spettrali e l’agilità dei gatti sui tetti.

I primi scontri furono a fuoco, faccia a faccia. L’odore acre della polvere sostituì quello del mare e nel giro di pochi attimi il ponte della galea si riempì di grida, fumo e sangue. I coltelli e le scimitarre cominciarono a luccicare al sole e i marinai papali mandati avanti come agnelli sacrificali vennero trafitti uno dopo l’altro.

E fu allora che accadde l’imprevedibile.

Pochi istanti prima, padre Ruffo era corso sottocoperta uscendo dalla cabina riservata al cardinale.

La prima palla di cannone aveva appena sconquassato lo scafo della galea. I rematori, imperterriti, avevano continuato a muoversi, ma l’imbarcazione beccheggiava come un pendolo. Sopra di lui, sul ponte, si udivano i primi spari, ma era nulla in confronto a ciò che il cardinale aveva pianificato.

Ruffo raggiunse la stiva e spalancò la porta. Ogni esperienza, si disse, aveva uno scopo noto solo a Dio. Per quanto odiasse trovarsi su quella nave in quel preciso momento, decise di trarre il meglio anche da una simile situazione.

«È il vostro momento», sussurrò.

I fanti di marina che Aldobrandini aveva mobilitato per la missione erano già in piedi, pronti a entrare in azione, addestrati e armati di tutto punto. Aspettandosi l’ennesimo attentato alla sua persona, il cardinale li aveva istruiti a dovere.

«Forza!».

I militari annuirono. Attesero che le due navi fossero affiancate e che i pirati cominciassero a scorrazzare sulla galea e poi sbucarono dalle botole sotto il ponte.

Ne vennero spalancate otto, da cui fuoriuscirono moschetti e pistole. Gli spari furono coordinati come in un’ouverture e i pirati caddero al pari di un cumulo di mosche.

«È una trappola», constatò il capitano della fregata. Ecco spiegato il pescaggio che appesantiva la galea. Nella stiva non c’erano merci da depredare… ma un battaglione di fanti della marina addestrati ai combattimenti navali ravvicinati.

«Manovra evasiva», ruggì una voce. «Staccate i rampini. Ce ne andiamo».

Rudolf, con un copricapo beduino da pirata, strinse il quadrello, ma sulla fregata non rimanevano che pochi uomini, male armati e impegnati con le manovre. La maggior parte avevano contribuito all’abbordaggio della nave papale.

Colpi di moschetto saettarono sopra la sua testa mentre, di corsa, si spostò verso il bompresso. Alle sue spalle, le carrucole richiamarono i ganci e le vele ancora indenni furono issate in tutta fretta.

I militari papali, però, sull’altra nave, stavano avendo la meglio sui pirati. Ancora una volta, Aldobrandini rischiava di averla vinta. Il piano di Eliardo, che non prevedeva ovviamente nessuno scambio di prigionieri, stava miseramente per fallire. Ma per fortuna c’era un’ultima speranza…

Raggiunto il castello, Rudolf afferrò una delle due torce appese al bompresso e incendiò una fucina, già preparata per quell’eventualità.

Un pennacchio di fumo bianco si innalzò solitario verso il cielo.