Capitolo 22
Palazzo Ducale, Venezia, sabato 29 gennaio 1763.
Nove giorni dopo.
Al di là delle mura Aureliane, oltre il Po e gli Appennini, anche nella Serenissima era giunta la neve. Non tanta da impensierire i mercanti che animavano il bacino di San Marco, ma sufficiente a spolverare di bianco i tetti dei palazzi e le calli cittadine.
Mattio Mellan era affacciato alla finestra del suo ufficio a palazzo Ducale, intento a osservare la neve che si accumulava sulle cornici delle finestre. Al di là del ponte dei Sospiri, nella laguna, una decina di imbarcazioni ondeggiava al ritmo della risacca. Oltre, una nebbia del colore del ferro aveva avvolto l’isola di San Giorgio e dava l’impressione che il mondo terminasse in quel punto.
Sistemò la pesante toga, simbolo della sua carica di Missier Grande della Serenissima, e tornò all’enorme scrivania. Le tabelle algebriche su cui stava lavorando erano in perfetto ordine, come del resto tutta la stanza, che rispecchiava in pieno il suo carattere. Era un uomo di mezz’età, che amava il rigore e aveva sempre vissuto interpretando il suo ruolo in modo draconiano. Non aveva vizi, non beveva, non giocava d’azzardo e, fino al recente fidanzamento, si diceva non gradisse neppure la compagnia femminile.
A differenza che a Roma, dove gli esecutori di giustizia avevano tanti padroni quanti erano i bargelli, a Venezia le cose andavano diversamente: ufficiali, zaffi da barca e birri, per un totale di quasi duemila uomini ripartiti tra le varie magistrature, facevano capo a un uomo soltanto. Lui.
Il suo lavoro gli era sempre piaciuto e, fino a un anno prima, aveva dedicato l’intera vita al servizio del satellizio. Dopo i recenti eventi che avevano portato alla morte del doge Francesco Loredan, era però profondamente cambiato. Nonostante il suo nuovo amore lo spronasse a lasciarsi quella vicenda alle spalle, trascorreva intere giornate a far di conto, nella speranza di comprendere… Non poteva negarlo: il non essere riuscito a salvare il doge e il non aver potuto sfruttare le sue conoscenze avevano lasciato in lui un senso d’impotenza. Da quella notte di luglio, nella quale la Dama nera era fuggita con l’aiuto dei suoi scagnozzi, aveva dedicato tutte le forze a cercare di ritrovarla. Lei e il suo marchingegno avrebbero potuto cambiare le sorti della Repubblica…

Un colpo secco alla porta di noce dell’ufficio lo strappò dai suoi pensieri.
«Avanti». Accarezzò la parrucca sulla nuca, per essere sicuro che fosse perfettamente al suo posto. Ripose la penna d’oca e raccolse i fogli con le tabelle.
«Eccellenza, è arrivata questa missiva per voi». Il pingue cancelliere Padoan comparve sulla porta come un’ombra. Consegnò una lettera nelle mani del Missier Grande e si ritrasse.
L’espressione di immobile concentrazione di Mellan fu turbata dalla sorpresa. Alzò un sopracciglio studiando il simbolo impresso nella ceralacca. «La lettera è del Patriarca?».
Padoan rispose con un esitante cenno del capo. Strofinò le mani sulla toga.
Mellan sbuffò e ruppe il sigillo. Il testo era alquanto breve, vergato con inchiostro nero e una grafia leggermente pendente a destra. Il Patriarca di Venezia, l’esponente più alto dello Stato pontificio nella Repubblica, chiedeva a Mellan di ricevere “con cortese sollecitudine” un giovane prete appena giunto dal Vaticano. Diceva anche che le notizie portate da Roma erano “di estrema urgenza e massima importanza” e che “garantiva personalmente”.
«Cosa sapete su questo padre Prospero Ruffo?»
«È arrivato ieri e con un’analoga lettera di referenze. Si è recato alla Cancelleria inferiore a consultare rogiti notarili».
«Sapete cosa cercava?».
Padoan allargò le braccia, senza rispondere.
«Va bene, parlerò con lui con cortese sollecitudine». Imitò il tono cantilenato del Patriarca e si alzò in piedi. Da buon illuminista qual era, aveva sempre avuto un po’ di animosità per le istituzioni religiose. Di solito sorrideva e si limitava a inchinarsi al momento opportuno. Andava anche regolarmente alle funzioni e teneva per lui le proprie perplessità, ma non c’era nulla da fare: non si fidava dei preti e di tutta la loro cricca. Soprattutto di quelli che venivano da Roma.
«Recapitategli per favore un messaggio: lo riceverò lunedì mattina».