Capitolo 74

Ducato di Milano, mercoledì 7 novembre 1764.

Molti mesi dopo.

«Se esistesse un libro con la storia della tua vita, leggeresti il finale?».

Era questa la domanda che Eliardo aveva posto ad Annika, al rientro dalla sua missione.

«Conoscere il futuro può rendere infelici», aveva assentito la contessa, usando più o meno le stesse parole che lui aveva utilizzato per persuadere Mellan. Era in piedi, calata in uno splendido abito di broccato rosa all’Andrienne, con un mantello che dalle spalle, in morbide pieghe, scendeva fino a formare un breve strascico. La scollatura era sottolineata da un pettorale à la Sévigné, una cascata di gemme che si perdeva nell’incavo del petto. Il piccolo Jean-Jacques era in braccio a lei, con le manine tese verso il padre.

«Conoscere il futuro può rendere infelici», ripeté Annika. «L’ho imparato sulla mia pelle».

Insieme erano andati al camino e una dopo l’altra avevano bruciato tutte le ipotesi che riguardavano la loro vita. Si trattò di un gesto con una forte valenza simbolica: mentre la carta si contorceva, rossa e blu, tra i ceppi di legna, disperdendo nell’aria ceneri che si sbriciolavano al solo respiro, l’espressione di Annika mutò.

Lentamente, la maschera di ghiaccio con la quale si era difesa negli ultimi anni si dissolse e sotto rimase un viso candido e più rilassato. La sua bellezza adamantina se ne giovò, le labbra divennero rosse e presero a palpitare. Era come se liberarsi del futuro, oltre che del passato, l’avesse fatta rinascere dalle sue ceneri.

Sorrise di gusto quando l’ultimo mucchio di ipotesi, quelle che andavano da centotrentamila a centoquarantamila, si sbriciolò nel camino. Non le aveva lette e ormai non avrebbe più potuto farlo.

Per una volta non pensò alle ricadute delle sue azioni, all’Influenza, alla Posizione e alla Salienza di ognuno dei soggetti coinvolti. Per una volta non era stata lei a dover risolvere il problema, e per una volta non gli interessava sapere in anticipo cosa le avrebbe riservato il domani. Non pensò a guardarsi le spalle, non pensò ad altro se non a vivere nel miglior modo possibile il suo presente.

«E ora, festeggiamo», propose Eliardo, in piedi con le mani infilate nelle tasche. Sotto la parrucca indossava jabot ricamato, pantaloni al ginocchio e scarpe eleganti di velluto. Andò al bel clavicordo sistemato tra due portefinestre coperte da fini tendaggi e si mise alla tastiera.

Nel frattempo, la domestica aprì i portoni del salone affacciato su piazza Duomo ed entrò con una torta al cioccolato. Sopra c’era una candela che ardeva allegra, a simboleggiare il primo anno di vita del giovane Jean-Jacques de Broglie. Esplosero applausi e sorrisi e subito dopo, sulla soglia, con visi festanti e abiti che segnavano un tripudio di velluti, rasi, trine e ori, comparvero Rudolf, Lucia e il piccolo Domenico.

Eliardo sospirò, nell’osservare la scena, e posizionò la mano sinistra sulla tastiera del clavicordo.

Attaccò con un arpeggio in la minore. Prese fiato e cominciò a cantare.

Veloce girava, la nobile Dama

Al ritmo seguiva, la melodia

Nessuno sapeva, della sua vita la trama

Intrecciata com’era, con la fantasia.

Mentre gli accordi proseguivano in la minore, do e mi minore, con la mente tornò a molti mesi prima, al giorno dell’affondamento della San Pio nelle acque del Levante. Aveva suonato la stessa canzone, con l’identico intreccio di note. Ma non in mare, a Roma…