Capitolo 40
Da qualche parte tra le vigne dell’Esquilino. Contemporaneamente.
Prima mattina.
Il rintocco lontano delle campane di Santa Maria Maggiore richiamò Eliardo dal suo sonno leggero. Aprì gli occhi e si pulì il viso dalla paglia. Lentamente si abituò alla semioscurità: il tetto a forma di capanna incontrava le pareti di legno appena sopra il suo giaciglio improvvisato. Il muro sormontato da una fila di finestrelle, che un tempo doveva essere stato dipinto di rosso, adesso era stinto e di color ruggine.
Un muggito, sotto di lui, gli ricordò dove si trovava: era nella stalla di una fattoria dalle parti delle Terme di Tito. Si trattava di un edificio piccolo con un soppalco di legno che fungeva da ricovero per la biada. Aveva dormito proprio lì sopra, dopo aver dovuto scavalcare il muro di cinta della proprietà ed essersi intrufolato nel portone già aperto. Sgusciato tra gli animali – due cavallini e un bue – e salito su una scaletta a pioli, aveva trovato un comodo giaciglio tra due balle di fieno.
Si mise seduto e dalla finestrella controllò le arcate del Colosseo, che sbucavano lontane oltre i filari di viti che si estendevano a perdita d’occhio. Prima di cercarsi un riparo caldo per la notte, era stato anche lì. Sapeva che l’anfiteatro fungeva da ritrovo di sbandati e di senza dimora, quindi quella era stata la sua prima opzione.
Una volta arrivato, la monumentale bacinella su tre ordini di archi, scale e gallerie l’aveva colpito per la fitta vegetazione al suo interno. Era una sorta di giardino a cielo aperto, con cespugli che sbucavano tra le pietre millenarie e edera che copriva la platea. In basso si udivano belati di pecore e bisbigli di uomini.
«Non è posto per voi, questo», gli aveva consigliato un anziano curvo e senza denti. Eliardo, affacciato nell’ambulacro, era stato preso alla sprovvista, ma aveva capito subito a cosa si riferisse l’uomo: indossava ancora gli eleganti abiti di messer Ciriello, il panciotto, le calze, le scarpe con la fibbia. Certo, la velada era un po’ gualcita per le notti in prigione, ma in effetti, se non fosse stato per la barba incolta, sarebbe stato facile scambiarlo per un nobile.
«Volete i miei abiti?», domandò all’anziano, affabile. Se qualcuno davvero lo seguiva, come era prevedibile, i suoi vestiti davano troppo nell’occhio. Cambiandosi e con il favore delle tenebre avrebbe forse potuto ingannarlo.
L’anziano, che indossava una miserabile casacca di velluto tarlata e dei calzoni da lavoro, s’illuminò in viso. I due si spogliarono e scambiarono i vestiti. L’odore di sudore misto a quello di terra e sterco salì fino alle narici di Eliardo, ma era una sofferenza necessaria, se voleva passare inosservato…
Il passo successivo era stato quello di scendere le scalinate del Colosseo e allontanarsi al buio. L’incontro con quel poveraccio l’aveva scosso. L’anfiteatro era un luogo troppo scontato per trascorrerci la notte. Come l’aveva notato quel poveraccio, anche un birro distratto si sarebbe potuto accorgere di lui.
Vestito da popolano, era quindi salito sull’Esquilino e, camminando tra capitelli e colonne mozze dell’Impero, era arrivato alla fattoria.

Stirò le braccia e guardò sotto di sé. Tra le travi del soppalco si vedevano i due cavalli ruminare lentamente, con il muso nella mangiatoia. Di tanto in tanto muovevano la coda per scacciare le mosche.
Poteva prenderne uno in prestito? No, paradossalmente sarebbe stato più difficile uscire da quella tenuta a cavallo che fuggire dal carcere. Ecco, quello era uno dei pensieri che ancora lo affliggevano.
Perché il secondino Ubaldo lo aveva aiutato a fuggire? Certamente non per le sue promesse. Qualcuno evidentemente glielo aveva ordinato. La contessa, oppure il veneziano Van Axel? Più ci rifletteva, più riteneva improbabile fosse stata Annika. Se davvero ci fosse stato il suo zampino, avrebbe mandato qualcuno a prenderlo fuori dal carcere, o no?
Se quindi non era stata lei, l’unica alternativa rimaneva Van Axel. Così si spiegava anche perché l’avevano rinchiuso nel carcere femminile invece che in quello maschile: lì, con ogni probabilità, la sorveglianza era più blanda. Solo i birri, oltretutto, potevano avere l’autorità di decidere dove portare un prigioniero dopo l’arresto e quella circostanza rafforzava la sua tesi.
La conseguenza logica era soltanto una: se era stato Van Axel a farlo liberare, la ragione poteva essere solo per seguirlo affinché lui lo portasse da Annika. Erano lei e il suo Omphalos il vero obiettivo.
Eliardo sorrise tra sé. Non aveva idea di dove fosse la contessa e non gli interessava. Adesso l’unica cosa che contava era lasciare lo Stato pontificio e scappare altrove.
Il portone cigolante della stalla lo fece trasalire. Una lingua di luce polverosa si diffuse sul pavimento mentre il fattore entrava con un forcone in mano. Dietro di lui c’era un bambino, in abiti acconci. Alzò l’indice e lo indicò. «Eccolo là», sussurrò.
«Allora era vero che c’è uno sbafatore», grugnì il padrone di casa. «Chi siete?».
Eliardo deglutì amaro, in cerca di una via di fuga. Nulla da fare: l’unica uscita era quel portone e tra lui e la fuga c’era solo una scaletta a pioli. Difficilmente avrebbe potuto scendere senza essere infilzato dal fattore.
«Piacere di conoscervi, messer», bofonchiò, sorridendo. Tentò di essere cordiale, ma era evidente che l’omone non aveva intenzione di parlare.
«C’avete le saccocce fatt’a llumaca?», l’apostrofò.
Nonostante non conoscesse il romano, Eliardo comprese cosa intendeva il fattore. Le tasche fatte a lumaca erano tipiche di chi non voleva pagare. Uno sbafatore, uno scroccone…
«Posso darvi qualche baiocco, messer, per la vostra ospitalità. Ma mi dovete consentire di scendere».
«Chi siete?», ribadì l’uomo, posizionato tra la rastrelliera sul muro e l’unico spiraglio nella porta. Il bambino, di fianco a lui, avanzò di un passo.
«Piacere di conoscervi», tentennò Eliardo, mentre lentamente si aggrappava alla scaletta per scendere dal soppalco. «Mi chiamo… Tiziano Furigo e sono qui di passaggio».
Giunto a terra, l’alchimista si tastò i vestiti ed estrasse dalla scarsela il portamonete di velluto. Era l’unica cosa che aveva tenuto dei suoi abiti e vi conservava realmente alcune monete. Non riuscì però a estrarle perché con un movimento repentino il bambino avanzò ancora e gli strappò il sacchetto dalle mani.
Il fattore non fece in tempo ad afferrarlo che il piccolo, di corsa, sgattaiolò fuori.
Eliardo non si fece pregare. «Ladruncolo», gli urlò, mentre cominciava a correre.
Una volta all’esterno della stalla si ritrovò in uno spiazzo ghiacciato, cinto da uno steccato che piegava a sinistra. Oltre, su una collina ondeggiante, si vedevano i filari della vite che si spingevano tanto lontano da lambire gli edifici della città.
Il bambino corse a più non posso con il portamonete di Eliardo tra le dita.
«Fermatevi, piccolo ladruncolo».
Nel frattempo anche il fattore aveva cominciato a correre, ma era già staccato di almeno di cinquanta passi. Anche lui stava urlando improperi, agitando il forcone.
Superata la casa patronale, che si ergeva al confine della proprietà, il bambino scomparve alla vista. Si infilò in un roveto e raggiunse la recinzione. Il muretto era di mattoni, alto come un uomo e sormontato da spuntoni di ferro. Di fianco c’era il cancello, in quel momento aperto per far passare un calesse trainato da un asino.
Il bambino puntò dritto da quella parte e fu fuori, in un vicolo sterrato fiancheggiato da cumuli di neve congelata.
Eliardo lo raggiunse pochi istanti dopo, giusto in tempo per vederlo in mezzo al vicolo. Si era fermato a prendere fiato, piegato in avanti con le mani sulle ginocchia.
«Restituitemi il mio portamonete», gli intimò, mentre si avvicinava. Anche Eliardo smise di correre e prese a camminare, le braccia larghe. «Non vi farò nulla».
Un piccolo gregge attraversò la strada, ostruendogli per un istante il passo. Il pastore fischiò a indirizzo di un cane lupo irsuto e sgraziato, e in breve tempo le bestie belanti si spostarono lungo il ciglio.
E a quel punto, da oltre la curva che proveniva dalle conserve antiche d’acqua, Eliardo vide comparire una piccola carrozza nera e impolverata. Era trainata da un’unica cavalla pezzata e si arrestò proprio accanto al bambino. Lo sportello si aprì.
«Bravo, Domenico», percepì l’alchimista, senza riuscire a vedere l’occupante della carrozza. Subito dopo una donna si sporse dal finestrino. «Buongiorno, Eliardo», lo salutò Lucia, sollevando il cappello a falde che le copriva il capo. «Avete bisogno di un passaggio?».