Capitolo 49

Vigna Lanciotti, rione Ripa, domenica 13 febbraio 1763.

Un’ora prima dell’alba.

Gli uomini di Viviani si mossero con il favore delle tenebre.

Erano otto in tutto, armati di moschetti e appostati su due carretti da carbone.

Lodovico Van Axel, che aveva fatto strada al convoglio, tirò le redini del suo purosangue nel luogo esatto in cui aveva riconosciuto la serra di Archita. Se la contessa fosse stata lì, le avrebbe fatto una bella sorpresa.

«Per di qua», suggerì con un filo di voce il capitano, accarezzando l’animale sulla chioma bianca.

Il mercenario saltò giù dal carro e sfoderò la pistola a pietra focaia. Fece un cenno ai suoi uomini, che lo seguirono muniti di corde e tiranti.

Il gruppetto si mosse in fretta alla luce grigia della notte. Posizionarono due barili accanto al muro e li usarono come appoggio. Uno dopo l’altro, vi salirono sopra in silenzio e si calarono dalla parte opposta all’interno della proprietà.

«L’edificio è laggiù», illustrò Van Axel, indicando il tetto a capanna oltre i rami degli alberi. Contro il cielo scuro, al di là dei filari spogli di vite, si scorgeva un pennacchio di fumo che fluttuava davanti alla luna.

Gli uomini, divisi in due gruppi, avanzarono a testa bassa. Erano preparati alla presenza di cani e si erano portati dietro bocconcini di carne a base di alcol e oppio. Non dovettero usarli, perché nessuno ostacolò la loro avanzata.

«Voi due sul lato nord», ordinò Viviani quando furono a metà strada tra la serra e la casa patronale. «Tu e tu, andate all’edificio principale. Tu, con me».

Van Axel, il pugnale stretto in pugno, si mosse verso la serra, accompagnato da due sgherri con il cappuccio sul viso. Arrivò allo spiazzo su cui si apriva l’ingresso dell’edificio e, con la mano, fece cenno ai due di fermarsi dietro di lui.

In alto, attraverso le finestrelle si scorgeva un’eterea luce di candele, ma il silenzio era inusuale. Se all’interno si trovavano oltre cento matematici, erano stranamente silenziosi.

Con la ghiaia ghiacciata che scricchiolava sotto i suoi stivali, si aggirò tra gli alberi ma fu costretto a fermarsi di colpo.

Uno sparo alle loro spalle, proveniente dal buio, echeggiò nell’aria.

«A terra!», sbraitò Viviani, che si voltò e puntò il moschetto verso l’edificio principale. Era più distante della serra, ma più alto e con il secondo piano che sovrastava le vigne. Le finestre erano tutte buie.

Un nuovo colpo, questa volta più acuto, forse di una pistola, seguì il primo pochi istanti dopo.

«Ci hanno visti». Van Axel si acquattò sotto una delle pergole e raggiunse carponi Viviani.

«Sono nella casa patronale», constatò il mercenario. «Ci stavano aspettando».

Un’altra palla sibilò nell’aria, lontano da loro. I rami delle viti si inchinarono come scossi dal vento.

«Rispondete al fuoco», strillò il mercenario ai suoi uomini.

Due miliziani puntarono i moschetti ed esplosero alcuni colpi. Non ottennero alcun risultato, perché, come un’eco lontana, una palla di pistola passò alla loro destra, perdendosi tra le viti.

Van Axel si poggiò con la schiena a un tronco e anche lui estrasse l’arma da fuoco, che teneva infilata nel bandoliere. «Teneteli occupati», gridò. Senza attendere risposta si mosse a testa bassa verso la serra.

Altri spari si susseguirono, ma erano lontani. Non così Viviani, che inaspettatamente l’aveva seguito.

Gli fece cenno di rimanere in silenzio e si drizzò solo quando raggiunse il lato protetto dell’edificio.

«Copritemi», disse, nel momento esatto in cui poggiò la mano sulla maniglia del portone.

Il mercenario annuì e puntò la canna del moschetto dritta davanti al suo naso.

Van Axel spalancò l’uscio e insieme piombarono all’interno.

Due miliziani corsero lungo il muro di recinzione della casa patronale.

Un colpo di pistola li costrinse a fermarsi, ma un movimento furtivo dietro a una gelosia tradì la posizione del cecchino.

«Terza finestra», specificò uno dei due uomini, chinandosi e afferrando un sasso dal sentiero. Lo lanciò tra gli alberi e finalmente il tiratore uscì allo scoperto.

Da dietro un vetro fece capolino un’ombra, poi sbucò una mano e infine un braccio. Nell’oscurità la canna si mosse alla ricerca degli intrusi, però questa volta non poté fare fuoco.

Uno sparo repentino partì invece dalla vigna.

Un urlo.

Il cecchino barcollò e dopo un istante precipitò nel buio.

«Via libera!», esultarono i due sgherri.

Si alzarono in piedi e di corsa raggiunsero il portico della casa.

Van Axel e Viviani avanzarono guardinghi tra i tavoli desolatamente vuoti della serra.

Erano disposti su due file, come le panche nella navata di una chiesa. Ma non c’erano né fedeli né il sacerdote.

Il pavimento era ricoperto di pezzetti di carta che giacevano ammonticchiati come foglie d’autunno. L’unica luce proveniva da dietro un pilastro, sul lato corto della sala.

«Non vi muovete!». Van Axel si avvicinò di soppiatto. Tese il braccio e puntò la pistola contro un uomo di spalle, alle prese con una stufa.

Questi non si voltò e buttò meccanicamente altri fogli nel fuoco.

«Chi siete?», lo interrogò brusco Viviani, tirandolo per il bavero del giustacuore.

Alla luce ballerina della fiamma, il viso dell’uomo rimase impassibile, lo sguardo inquisitore e pungente. Strinse i fascicoli che teneva in mano, ma non interruppe ciò che stava facendo. Appallottolò un altro mucchietto di carta e lo infilò nella stufa.

«Fermatevi», l’apostrofò ancora Viviani. Questa volta gli strappò dalle mani un fascicolo di carta pergamena e poi tornò a osservare quell’ometto rotondo e rubicondo.

«Dov’è la contessa?».

Messer Elio, il fattore, a quel punto sorrise. «Non conosco nessuna contessa».

Più o meno nello stesso istante, i mercenari nella casa patronale finirono il giro d’ispezione. Non avevano trovato né ulteriori cecchini né altri occupanti. Gli armadi e le credenze delle camere erano vuoti, così come le dispense del cibo.

Se lì c’era stato qualcuno, se n’era andato. E visto il deserto che aveva lasciato dietro di sé, non aveva intenzione di tornare molto presto.