Capitolo 5
Colle Palatino, ultimi lustri della Roma repubblicana, 60 a.C.
1823 anni prima…
La casa di Cicerone sul Palatino si trovava sul lato nord-ovest del colle, tra l’abitazione di Clodio e quella di suo fratello Quinto. L’aveva acquistata da Crasso in persona dopo aver terminato il suo anno da console, e ne andava molto orgoglioso.
Per la verità, Marco Tullio Cicerone andava molto orgoglioso di tutte le sue case, che sembrava collezionare. Aveva una decina di ville fuori dall’Urbe e numerosi altri immobili, su cui spiccavano fattorie e proprietà terriere come quella di Tusculum. Amava chiamarle “le gemme d’Italia”, e gli piaceva trascorrervi periodi più o meno lunghi a seconda della stagione.
Quel dicembre, durante il consolato di Quinto Cecilio Metello Celere, Roma però era in fermento e così Cicerone aveva deciso di rimanere sul Palatino. Di lì a pochi giorni, Cesare, eletto nell’estate precedente, avrebbe prestato giuramento come il console più giovane mai nominato. Non era stata un’impresa facile, soprattutto perché il Senato – con l’avvallo proprio di Cicerone – aveva ostacolato in ogni modo il suo ingresso in città. Il giovane governatore della Spagna Ulteriore era infatti da poco rientrato dall’Iberia, dopo aver conquistato numerose terre confinanti. Come tutti i generali che l’avevano preceduto, da ultimo Pompeo, era appostato fuori dalla città con il suo esercito. Da tradizione consolidata, non avrebbe potuto varcare le mura con i legionari armati senza l’avvallo del Senato. Ma senza entrare in città, non avrebbe potuto candidarsi a console.
Per la maggior parte dei senatori che si opponevano a lui, mai avrebbe rinunciato al trionfo per presentare la sua candidatura. Invece era accaduto: Cesare era entrato da solo in Senato, giusto in tempo per partecipare alle elezioni. La sua notorietà era tale che il luglio successivo era stato acclamato con voto unanime da tutte le centurie.
Erano ormai trascorsi cinque mesi da quell’avvenimento e tre anni da quando Cicerone era stato lui stesso console. Quella mattina di dicembre, Cicerone aveva ricevuto un biglietto da parte di Lucio Balbo, uno degli uomini più fidati di Cesare, ed era sceso a piedi verso il Senato.
Il Clivus Victoriae, la strada panoramica che usava percorrere, era presidiato da questuanti. Mentre camminava attorniato dalla guardie del corpo, Cicerone osservava la città dall’alto. Chiunque, provenendo da qualunque altro posto del mondo conosciuto, sarebbe rimasto senza fiato: il foro, il tempio di Castore, le ville, i colonnati, i capitelli, i tetti rossi che luccicavano al sole invernale… tutto era studiato per stupire. Non Cicerone, però, che invece, rimuginando sul biglietto ricevuto, si guardava attorno guardingo.
«Eccolo», gli sussurrò all’orecchio il fidato schiavo Tirone, che negli anni era diventato il suo assistente personale.
Cicerone alzò il capo e oltre una selva di teste individuò il ciuffo disordinato che nascondeva la calvizie di Cesare. Per essere il console designato, prossimo al giuramento, la sua scorta era alquanto sguarnita e ciò significava che l’incontro richiedeva discrezione.
«Caro Gaio», lo salutò Cicerone, tendendo le mani. I due si appartarono dietro una curva, nei pressi del Clivus Palatinus.
«Sono contento che tu sia venuto», esordì Cesare. Era più giovane di lui di soli cinque anni, ma sarebbero potuti sembrare venti, per quanto appariva in forma. Aveva un fisico asciutto, atletico, qualcuno avrebbe anche detto che era un bell’uomo, non fosse stato per il naso un po’ grosso. Di sicuro, aveva fascino e sapeva come usarlo per piacere alla gente.
«Il biglietto di Lucio Balbo diceva che è questione delicata…». Cicerone si voltò per guardarsi le spalle, ma dietro di loro non c’era nessuno. Gli uomini di Cesare si erano sistemati sul ciglio della strada e ostruivano il passaggio per garantire ai due politici la necessaria riservatezza.
«È così infatti», ammise Cesare. «Volevo proporti un accordo, per rinsaldare, per così dire, il nostro rapporto».
Tra i due non correva buon sangue. Cicerone, senza mai farlo apertamente, era uno dei senatori che aveva intralciato la sua candidatura. Si sopportavano quindi con finta cordialità, proprio perché la sua lungimiranza l’aveva spinto a non contrastare mai Cesare direttamente.
«Che tipo di accordo?»
«Un accordo che prevede l’assegnazione delle terre libere in Campania ai veterani di Pompeo».
Cicerone si accigliò nella sua tipica espressione corrucciata. «Vuoi regalare le terre dei cittadini romani a soldati nullafacenti? È questo che stai proponendo?»
«Ti sto proponendo di farti un amico importante. Se appoggerai la mia legge in Senato, Pompeo ti sarà riconoscente».
Cicerone scosse il capo. «Gaio», disse in tono paternalistico, «tu sei un uomo franco e io voglio esserlo con te. Sai bene che se approverai questa legge ti metterai contro l’intera aristocrazia».
«Ma porterò dalla mia parte il popolo… Oltre ai legionari, daremo terre anche ai più bisognosi».
Cicerone sospirò. Era chiaramente contrariato, ma nonostante tutto volle saperne di più. «Pompeo è già a conoscenza della tua idea?», si informò. «E in cambio sosterrà la tua carriera politica… è così?»
«Se vuoi metterla in questi termini…», sorrise Cesare.
«Se sei già d’accordo con lui, a cosa ti serve il mio assenso?». Era una domanda retorica, perché Cicerone conosceva già la risposta. Il suo appoggio aveva il fine di dare credibilità alla proposta di legge, di coprirla con un velo di rispettabilità che solo il suo nome avrebbe conferito.
«Faresti parte di una commissione che si occuperebbe di gestire l’assegnazione delle terre», spiegò ancora Cesare. «Una commissione che opererebbe in totale autonomia e con un grande potere».
«Una commissione che lavorerebbe fuori dalle regole del Senato».
Sapevano entrambi che era così, ma l’altro non lo confermò. Rincarò però la dose, per rendere ancora più allettante la sua proposta. «Oltre a me, te e Pompeo, anche Crasso farebbe parte della commissione».
«Crasso e Pompeo nella stessa stanza? Quei due si odiano».
«Forse…», sorrise Cesare. «Ma io sono amico di entrambi. Ed entrambi sono amici del potere».
«Stai parlando di un abominio giuridico, un accordo retto, come tu stesso ammetti, solo dalla sete di potere». Cicerone si accarezzò nervosamente la toga. «E per quanto durerebbe l’incarico in questa commissione, nel tuo intendimento?».
Cesare sorrise di nuovo, sornione. «Durerebbe per sempre!».
«Gaio, una cosa del genere va contro tutte le regole della Repubblica». Cicerone gli poggiò una mano sulla spalla, come se quel gesto fosse sufficiente a fermarlo. Adesso, ogni fibra del suo corpo lasciava trasparire repulsione per un progetto che andava al di là di ogni suo principio. «Lo sai bene… perché altrimenti non chiederesti il mio appoggio».
A quel punto il console designato si spazientì. Digrignò i denti ed emise un sospiro. «Mi avevano avvertito che era un errore chiedertelo. Bene, se non vuoi farne parte, ti domando almeno di non intralciarmi. Pompeo e Crasso vogliono da te una rassicurazione in tal senso».
Cicerone non rispose. In effetti la richiesta di Cesare non prevedeva una sua risposta… era più o meno un ultimatum. E ciò fu confermato dal fatto che Cesare si voltò proprio mentre finiva la frase, avviandosi verso il foro.
Cicerone, guardandolo allontanarsi così sicuro di sé, si domandò se non fosse stato un errore lasciargli accumulare potere fino a quel punto. Avrebbe dovuto tarpargli le ali molti anni prima, quando i ruoli erano invertiti… ma non lo aveva fatto. Adesso, in un triunvirato di ferro insieme a Pompeo e Crasso, nessuno avrebbe più potuto contrastarlo. Come lo avrebbero soprannominato? Mostro a tre teste?
«Tirone», chiamò il suo schiavo, mentre i calzari di Cesare erano già lontani. «Torniamo a casa. Prepara la pergamena».
Il suo assistente sbiancò.
La pergamena?
Era da tempo che Cicerone non la consultava… l’ultima volta che lo aveva fatto era stato tre anni prima, per sventare la congiura di Catilina.
«Ma padrone…».
«Fai come ti ho detto!», lo riprese il magistrato, che si sistemò la toga e risalì verso il Palatino seguito dalle sue guardie.

Dieci minuti dopo Marco Tullio Cicerone era seduto nella biblioteca, davanti a una pergamena arrotolata dall’aspetto molto antico.
Dopo la congiura ai danni della Repubblica, che aveva sventato guadagnandosi l’appellativo di Padre della Patria, aveva deciso di non consultarla più. I tempi però erano cambiati…
Sciolse il laccio con il quale era legata e la srotolò sul tavolo. L’odore di pelle, misto a quello dei campi in fiore, gli riportò alla mente la prima volta che l’aveva veduta. A Rodi, diciannove anni prima.