Capitolo 56
Piazza del Monte di Pietà, rione Regola, lunedì 14 febbraio 1763.
All’alba.
L’ambasciata di Altieri era arrivata prima di quanto se la sarebbe aspettata.
«Tutto confermato», le aveva comunicato un domenicano giunto la sera prima alla legnara. «Dovete avvisarlo che deve venire da solo».
Madonna Rita aveva annuito e inviato a sua volta un ambasciatore al Banco dei Pegni. E adesso, quando le prime luci del giorno si affacciavano dietro i campanili di Campo Marzo, governava il suo carro per i vicoli deserti.
Era sempre stata una donna con spirito d’iniziativa. Era lei la vera carbonara, non suo marito Dario. Lei sapeva fare di conto, parlava con i barcaroli, trattava con i clienti, ordinava e stoccava la merce che arrivava via fiume. E non poteva essere altrimenti, visto che la legnara che gestiva insieme al marito era appartenuta a suo padre e ancora prima a suo nonno.
Dario era arrivato dopo, un popolano baldanzoso che si atteggiava a nobiluomo, pur essendo nato e cresciuto tra i fascinaroli di Ripetta. Come alle altre ragazze, le era subito piaciuto, ma mastro Della Valle aveva scelto lei. Forse era per via della legnara, che mai il suocero avrebbe fatto gestire a una donna. Oppure, e questo era quello che aveva pensato Rita, era perché aveva visto in lei una ragazza sveglia, piena di risorse e anche graziosa.
Si erano amati e non avevano avuto figli. Nonostante l’avanzare dell’età non avevano però smesso di provarci.
«È a causa dei miasmi del carbone», aveva sostenuto strenuamente il marito fino al giorno precedente la sua dipartita. «Ti porterò via da qui», l’aveva rassicurata, senza poi essere in grado di mantenere la sua promessa. Era morto per una borsa d’oro e, per uno scherzo del destino, ora toccava a lei trascinare il mandante dei suoi assassini in un tranello mortale.

«Il cardinale sta per arrivare», le comunicò Viviani, in groppa al suo cavallo, non appena vide entrare il carretto nella piazza deserta.
Il mercenario, assieme a un’altra decina di uomini, era intabarrato in una cappa che copriva anche i dorsi delle loro cavalcature. Gli animali erano irrequieti, si muovevano a piccoli passi e nitrivano nel gelo.
Madonna Rita scese dal carretto, raccolse un pugno di fieno dal retro e diede da mangiare al mulo. Poi, coprendosi con il suo grosso scialle di lana, si diresse a piedi verso Viviani.
Proprio allora, da sotto l’arco del monte che collegava il Banco a palazzo Barberini, sbucò una carrozza rossa bardata d’oro. Era trainata da due eleganti andalusi dal manto bianco, che inclinavano all’unisono le loro lunghe teste.
Il valletto balzò dallo scalino sul retro e aprì lo sportello davanti alla donna.
«Salite», ordinò Aldobrandini, il mento poggiato sul manico d’argento del suo bastone da passeggio. Aveva un colorito roseo, simile a quello di un maialino, e un sorriso reticente sul viso.
«Er Dalmata si era raccomandato che andaste da solo all’incontro».
Il protettore si limitò a stringere la bocca, facendone una linea sottile con il solo risultato di far ballonzolare il doppio mento. «Vi sembro il tipo da seguire gli ordini di un manigoldo?».
Madonna Rita non replicò. Altieri l’aveva preparata a quell’eventualità, anche se sperava di risolvere il problema con minori sforzi. «Si spaventerà se vedrà i vostri uomini».
«E allora faremo in modo che non li veda».
«Non vi consegnerà la cedola se non andrete da solo», insistette ancora la donna, stretta nello scialle.
Aldobrandini scacciò l’obiezione con un gesto della mano guantata.
La cedola.
Il problema ormai non era più quel banale documento, bensì il bargello stesso e la sua presunta vicinanza con la contessa. Era a causa sua che aveva accettato di andare. Pur sotto tortura, Van Axel non aveva infatti confermato nessuno dei suoi sospetti e quindi non gli restava che attaccarsi a quella flebile speranza. Sempre che, davvero, dietro Altieri ci fosse la Dama nera con il suo bagaglio di vaticini.
«Voi non vi preoccupate di quali sono le nostre intenzioni», tagliò corto. «Salite, se non volete farvi tre giorni in groppa al vostro mulo. È tardi. Andiamo». Picchiò con il bastone sul vetro dietro al cocchiere, e una volta che la donna fu al suo fianco la carrozza si mosse.
Il convoglio, seguito da una decina di cavalieri armati, si diresse velocemente verso le porte della città.

Pochi istanti prima, un cavallo nero imboccò al piccolo trotto ponte Sisto, non molto distante da piazza del Monte. Il sole stava nascendo e diffondeva i suoi primi raggi oltre il Tevere congelato. La cupola di San Pietro, che si stagliava maestosa al di là delle vigne e degli edifici di Trastevere, scintillava di arancione e di rosso vermiglio.
Rudolf spronò il cavallo e accelerò il passo. Aveva galoppato per l’intera notte, seguendo gli ordini che la contessa gli aveva impartito su suggerimento dell’alchimista.
Non era solito discutere e di solito si limitava a eseguire. Questa volta però, mentre scendeva dall’Appennino sotto un cielo stellato, si era fatto alcune domande.
Come poteva, il capitano Van Axel, essere diventato un loro allea-to? E soprattutto, come avrebbe fatto a liberarlo, se davvero era tenuto prigioniero nel palazzo Barberini?
La risposta arrivò inaspettatamente nel momento in cui il suo destriero si lasciò alle spalle la chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini e si immise in piazza del Monte.
Il convoglio con alla testa la carrozza rossa contrassegnata dalle effigi del cardinale stava partendo proprio in quel momento. Tirò le redini, attese che fossero scomparsi verso Campo de’ Fiori e poi si mosse. Oltre al carro con bagagli e muli, che lasciavano immaginare una trasferta di almeno qualche giorno, aveva contato dieci cavalieri al seguito. Non sapeva di quanti uomini si avvalesse in tutto il cardinale, ma di sicuro in quel momento erano dieci in meno… se c’era un’occasione in cui valeva la pena tentare la sua sortita, era proprio quella.
Decise di trasformare il suo semplice sopralluogo nell’inizio della missione e smontò da cavallo. Si spostò a piedi verso il portone del palazzo e con il quadrello nascosto sotto il tabarro suonò il batacchio.
Dopo pochi istanti, giunse ad aprire il maestro di casa, un omino in giustacuore scuro con una parrucca impeccabile. Aveva la pelle grigia e rugosa, non tanto per l’età, quanto per l’eccessiva magrezza del viso. Era tuttavia talmente ordinato e impettito che sembrava non fosse neppure andato a dormire.
«Devo interloquire con Viviani», l’apostrofò Rudolf, senza fornire altre spiegazioni.
L’uomo lo fissò incerto e poi scosse il capo. «L’avete mancato di poco».
«C’è un lestofante che minaccia di uccidere il cardinale», bofonchiò ancora Rudolf a bruciapelo. «Sono qui per mettere in guardia chi si occupa della sua sicurezza».
L’omino divenne più bianco della sua parrucca. «Chi siete?». Il rimbombo degli zoccoli del convoglio si era appena spento oltre le facciate decorate dei palazzi e ora la piazza, gelida e immobile, era vuota.
«Sono qui per aiutarvi», specificò il gigante. «Se Viviani non c’è fatemi parlare con le guardie che sono a palazzo».
«C’è solo padre Ruffo e uno dei suoi uomini», ammise l’anziano, con un’ingenuità degna di un infante. «Gli altri hanno scortato il cardinale in un viaggio».
A quel punto Rudolf estrasse il quadrello e lo piantò dritto nella gola del maestro di casa. «Ho dimenticato di dirvi che il lestofante sono io».

Due minuti più tardi, dopo avere legato e imbavagliato l’ometto a una sedia dell’androne, Rudolf scese nel seminterrato.
Sbucato da oltre una scala a chiocciola con il quadrello stretto in pugno, camminò nella penombra rasente al muro. Stando a quanto aveva confessato il maestro, Van Axel era tenuto segregato in una delle stanze della servitù, accanto alle cucine.
Svoltò l’angolo e si ritrovò in un corridoio a volta. Poche lampade ardevano da entrambi i lati e proiettavano sul muro ombre simili a sagome barcollanti. In fondo c’era una guardia assonnata, seduta davanti a una porta, che si sorreggeva il capo con le mani.
Rudolf estrasse una moneta e la lanciò nella direzione del guardiano.
Nell’udire l’eco metallico, l’uomo si rianimò all’istante. Pensò fosse stato il tintinnio di una spada, ma sapeva di essere l’unico armato nel palazzo. Non capendo da dove era venuto il suono, si alzò. Estrasse la pistola a pietra focaia e, tenendola ritta accanto all’orecchio, si avviò lungo il corridoio. Verso Rudolf.
Quando fu a portata di quadrello, il gigante uscì da dietro l’angolo e afferrò il collo della guardia con una mano. Con l’altra gli puntò il pugnale dritto davanti all’occhio sinistro.
L’incarnato dell’uomo si fece terreo. Lasciò cadere l’arma e alzò le mani.
«Portami da Van Axel». Gli occhi di Rudolf, solitamente piccoli e nascosti dalle folte sopracciglia bionde, si fecero grandi e autoritari.
Mollò la presa e attese che la guardia cominciasse a camminare dinanzi a lui. Tornò alla sua postazione e con una chiave alla cintura aprì la serratura.
Quando la porta fu spalancata, il capitano veneziano era già in piedi, le mani avvolte in due fasciature insanguinate e l’espressione interrogativa.
«Voi?».