Capitolo 61

Palazzo Barberini ai Giubbonari, rione Regola, Roma.

La bambina si avvicinò lentamente tenendo in mano una candela. Sotto la camicia da notte merlettata si intravedeva il fisico acerbo di una silfide. I capelli, lunghi, lisci e lucidi, le incorniciavano il viso angelico, cadendo sull’addome piatto e lambendo la schiena. Il respiro impaurito le si spezzava in gola, affannato, facendole sobbalzare il petto.

«Vieni avanti», sussurrò Aldobrandini di Carpi, accomodato sul grande letto a baldacchino. «Lascia che ti veda».

Rosella avanzò scalza sul pavimento di legno ed entrò nello specchio di luce del camino crepitante. Le fiamme le illuminarono le gote arrossate. Non era la prima volta che si trovava in quella situazione e sapeva benissimo cosa il cardinale si aspettava da lei. Aveva paura.

«Sei bellissima», mormorò lui, il tono untuoso. Si alzò, lasciando cadere sulle gambe la lunga veste da notte. Le accarezzò il capo e con la mano scese sulle spalle e sulla schiena.

La bambina s’irrigidì, ma si costrinse a non reagire.

«Devi fare tutto ciò che il protettore ti chiede», le aveva ripetuto sua madre fino allo sfinimento. Ma lei non voleva. Quando quegli uomini l’avevano caricata sulla carrozza per portarla nel palazzo dai soffitti dipinti e le porte d’oro, aveva pianto. Non adesso però. Il suo viso era immobile come quello di una statua.

Il cardinale le sorrise. «Ti va una cioccolata?», chiese, senza però smettere di accarezzarla. La fece voltare e le slacciò la camicia da notte, che scese sulle sue spalle. Il prezioso tessuto le scivolò lungo i fianchi e la lasciò completamente nuda e rigida.

«Fai tutto ciò che il protettore ti chiede», salmodiò Rosella. Chiuse gli occhi nel momento in cui il religioso la prese in braccio e la depose al centro del grande letto, contornato da petali di rose.

Rosella sapeva cosa sarebbe successo dopo, e si augurò solo che finisse presto.

Il cardinale si avvicinò a lei e, sollevate le vesti, le montò sopra. Il suo sguardo era cambiato, il sorriso viscido era scomparso e sembrava che dentro di lui ci fosse un’altra persona. Agitò il bacino prima lentamente poi sempre con più violenza. Improvvisamente, mentre era sopra di lei, le mise le mani attorno al collo.

Rosella si lamentò con un guaito. Cercò di divincolarsi, ma Aldobrandini era più forte. Provò a scostargli le dita, che si chiudevano vigorosamente. Più l’uomo spingeva con il bacino, più stringeva la presa sul collo.

Le mancava l’aria. I bulbi oculari le strabuzzarono fuori dalle orbite.

«Brava. Brava», biascicò il cardinale, ansimando sopra di lei. Sembrava spiritato.

Rosella provò ad alzare la testa, per mordere il polso di Aldobrandini, ma non ci riuscì. Desistette.

«Sì!», grugnì con voce gutturale il protettore alla fine, dopo diversi interminabili minuti.

Si tirò su soddisfatto, contemplando il corpo nudo della bambina. Ma si accorse subito che qualcosa non andava. Sapeva che le avevano insegnato a non opporgli resistenza ed era stata brava. Però… era troppo immobile.

Si avvicinò a lei e si accorse che non respirava.

«Rosella», provò a scuoterla, la voce tremante. «Rosella», sbraitò poi, d’impeto. La rabbia, mista allo sgomento, si impossessò di lui. L’aveva soffocata. Girò su sé stesso, incerto su cosa fare. «Sono malato. Malato. Malato. Malato». Si sedette sul letto e si prese la testa fra le mani, imprecando contro di sé e la sua natura, alla quale non poteva resistere.

Trascorsero alcuni istanti e, una volta calmatosi, si fece il segno della croce guardando il cadavere esangue al centro del letto. La rivestì con cura e chiamò la servitù.

Pochi minuti dopo, Ennio Massimo Viviani era a Trastevere, a casa della madre di Rosella, con una borsa traboccante di giuli sonanti. Il giorno successivo, il migliore artigiano costruttore di bambole e il migliore imbalsamatore di Roma entrarono nel palazzo in piazza del Monte. Con il loro aiuto, la bambina sarebbe rimasta sempre con il cardinale.

Cullato dalle vibrazioni della carrozza, Aldobrandini voltò il capo verso il paesaggio che scorreva grigio fuori dal finestrino. Non stava dormendo, ma ogni volta che chiudeva gli occhi e lasciava vagare la mente gli ultimi attimi della vita della sua Rosella tornavano a perseguitarlo. Dopo di lei c’erano state molte altre veneri bambine, ma nessuna era riuscita a rimpiazzare il suo primo amore.

Picchiettò il pomello del bastone sul vetro che lo separava dal cocchiere e fece fermare il convoglio. Le guardie che l’avevano scortato via dalle torri Beccati questo e Beccati quello lo avevano condotto a Perugia. Da lì era montato su una carrozza che, sferragliando, si era diretta verso Roma.

Appena la vettura si fu fermata sul ciglio di una strada polverosa, ai margini di un bosco di castagni, Aldobrandini scese a prendere una boccata d’aria.

Non era un uomo abituato ad arrendersi, ma gli eventi di quella mattina l’avevano scombussolato. La sua speranza di catturare la contessa si era rivelata una pia illusione. Sapeva che i suoi uomini l’avevano individuata ai margini della battaglia, ma purtroppo gli era sfuggita di nuovo come un pugno di sabbia tra le dita.

Non doveva pensarci. Avrebbe trovato il modo di acciuffarla e di addomesticare le sue capacità divinatorie. Nel frattempo, però, doveva dedicarsi al progetto più importante. Quello che per Altieri avrebbe dovuto fargli temere Nostro Signore. C’era ben altro per cui il Salvatore sarebbe dovuto essere in collera con lui. Ma non era il momento di chiedere perdono.

Rasserenato, risalì sulla carrozza pensando al futuro. Le cedole a vuoto gli avrebbero dato più potere che al papa stesso. Erano il futuro, così come la contessa d’Aumale. Doveva solo avere la pazienza di aspettare.

«Datemi il controllo di una moneta, e me ne frego di chi fa le leggi», si ripeté. E solo allora si tranquillizzò.

A molte miglia di distanza, al confine tra lo Stato pontificio e il Granducato di Toscana, madonna Rita era seduta con la schiena poggiata alla grande quercia. Osservava le guardie fiorentine che caricavano i cadaveri dei caduti su carri e carretti.

Rita si asciugò le lacrime. Uno di quei corpi apparteneva ad Altieri. Non potevano considerarsi amici, eppure provava dispiacere per lui. Era stato un uomo di parola. Uno dei pochi.

Estrasse dalla sua veste la cedola, che aveva prelevato poco prima dal panciotto del bargello, e la studiò. Quel documento faceva di lei una donna ricca, e se adesso era in suo possesso lo doveva al povero Altieri. Gli accordi erano che lei l’avrebbe avuta a giochi fatti e guardando quello schieramento di cadaveri non poté che constatare che la partita era finita.

Si alzò in piedi e si avviò verso il cippo che indicava la direzione per il lago Trasimeno. Non udì le urla di uno dei doganieri impegnato a comporre pudicamente le salme.

«Ehi», chiamò l’uomo, con tono concitato. «Qui ce n’è uno ancora vivo».

I doganieri si avvicinarono al corpo, che presentava una vistosa ferita alla testa. Era incosciente ma respirava. «Deve essere un veneziano: ha il simbolo del leone sulla casacca».