Capitolo 42
Domus Publica, ultimo respiro della Roma repubblicana. Cinque giorni dopo le idi di marzo del 44 a.C.
1807 anni prima…
Cesare aveva acquistato troppo potere ed era morto proprio per quella ragione. Ventitré coltellate avevano spazzato via in pochi istanti la vita del condottiero e al contempo avevano messo in pericolo la Repubblica.
Mentre il possente centurione Publio Sestio inchiodava le casse di legno secondo le indicazioni del pontefice massimo, ripensava ai momenti concitati dopo l’assassinio.
Bruto e i suoi avevano inizialmente pensato di far sparire il suo corpo gettandolo nel Tevere. Non lo avevano fatto per paura di Lepido e Marco Antonio e lo avevano semplicemente abbandonato nella Curia, grondante del suo sangue e con la toga lacerata. Solo alcune ore dopo, mentre i congiurati sciamavano per la città al grido: «Libertà!», tre schiavi lo avevano portato via su una lettiga.
Erano stati momenti terribili. Calpurnia, la moglie di Cesare, straziata dal dolore, lo aveva fatto preparare per l’ultimo rito: il corpo era stato lavato, profumato con unguenti e rivestito della toga praetexta. Nel frattempo i politici si erano subito messi al lavoro, concedendo ai congiurati l’amnistia. Atto inutile, perché la rabbia popolare era stata tale che gli assassini avevano dovuto lasciare il Senato, rifugiandosi sul colle Capitolino.
Quando il corteo partì dalla Domus Publica, con il feretro sorretto dai magistrati e circondato da patrizi e plebei, Publio Sestio si mosse.
Quello era il momento migliore per lasciare la città indisturbato. Con l’aiuto di Tirone trasfigurato dalla tristezza, caricò le casse su un carro trainato da due cavalli e si diresse dalla parte opposta rispetto alla via Sacra.
Mentre Marco Antonio aizzava la folla con il suo discorso funebre, mostrando perfino i pugnali e la toga intrisi di sangue, Publio Sestio imboccò il ponte Milvio.
Vi era già passato in compagnia di Cesare, dopo le sue imprese in Gallia. Baculus, il Bastone, lo aveva soprannominato il condottiero. Certamente per via del bastone che portavano tutti i centurioni a simbolo del loro grado, ma anche per la sua rudezza. Publio Sestio era considerato da tutti un eroe, un uomo dal grande ardimento, i cui muscoli imponenti non si piegavano mai di fronte alle avversità. Lo stesso pontefice massimo aveva narrato le sue gesta nel De bello gallico. Come quella volta in cui, coperto di ferite, Publio Sestio aveva retto valorosamente l’attacco dei nervii contro la Dodicesima legione. Oppure come quando aveva respinto da solo e ferito i nemici in procinto di penetrare nell’accampamento.
Per Cesare era stato il centurione più alto in grado, era stato un confidente e forse, di ciò Baculus era convinto, un amico. Per questo ora stava compiendo quell’ultima missione. Non sapeva cosa vi fosse scritto su quelle preziose pergamene che Cesare gli aveva detto di nascondere alla sua morte. Era però certo che avessero contribuito alla sua fine e quindi era preparato a respingere chiunque fosse andato a domandargli dei rotoli. Uno, lo aveva avvisato Cesare, poteva essere addirittura Cicerone. Per evitare di dovergli opporre un rifiuto, o peggio di dovergli mentire, aveva preferito organizzare la spedizione proprio durante i funerali. Fino a che le ceneri non fossero state raccolte in un’urna, nessuno per decenza si sarebbe presentato a reclamare i documenti… e in seguito sarebbe stato troppo tardi.
Dopo quasi un’ora di cammino, mentre ai rostri, nel foro, la pira con il corpo di Cesare bruciava, il carro di Publio Sestio imboccò la via Flaminia verso nord.
Le istruzioni erano chiare: doveva portare le pergamene nei pressi di Ravenna, il lembo più meridionale della Gallia. Quello era stato un luogo caro a Cesare, il punto in cui le sue legioni si erano radunate prima di attraversare il Rubicone. Era il posto ideale per nasconderle, perché a causa della laguna e delle paludi era di difficile accesso.
Furono necessari quasi quindici giorni per raggiungere l’Adriatico. Il clima di marzo era ancora rigido e sugli Appennini Publio Sestio aveva trovato la neve, che l’aveva costretto ad accamparsi non lontano da Perugia. All’inizio di aprile, il carro del centurione imboccò finalmente il litorale di dune sabbiose che dividevano la terraferma dal mare. Individuò il luogo esatto, non lontano dalle pendici delle colline di Meldola, e si fermò.
Da solo, armato degli utensili che aveva portato dalla città, si mise a scavare. Sotto il primo strato di sabbia trovò roccia più dura, che scalfì scheggia dopo scheggia munito di martello e scalpello. Fu necessaria un’altra settimana di lavoro, muscoli e sudore, ma alla fine creò un anfratto di forma quadrata, diverse braccia sotto il livello del terreno. Era talmente ampio da ospitare le fondamenta di un edificio. Esausto e ricoperto di polvere, vi calò all’interno le due casse, che nel frattempo aveva provveduto a cospargere di pece per renderle impermeabili, e poi richiuse il fosso.
Quando depositò l’ultimo secchio di sabbia, una lacrima gli solcò il viso segnato dalle cicatrici da battaglia. Scolpì un cippo di pietra e vi incise la frase ALEA IACTA EST, il dado è tratto. Dopo averlo posizionato sopra lo scavo, alla fine si sedette esausto a contemplare il tramonto sulla laguna.
Le ultime volontà di Cesare erano state esaudite. Se fosse stato fortunato, le pergamene sarebbero state ritrovate dopo un millennio. Non lo fu, perché proprio in quel luogo, solo centocinquanta anni dopo, l’imperatore Traiano decise di farvi passare il tracciato di un nuovo acquedotto.