Capitolo 65
Sestri Levante, Liguria, lunedì 7 novembre 1763.
Metà mattina.
Teso come un tamburo, Eliardo si affacciò alla grande finestra. La baia del silenzio, che si apriva placida oltre la trifora, era inondata dalla bianca luce mattutina. Dalla parte opposta della piccola spiaggia, un’imbarcazione stava attraccando nei pressi del convento dell’Annunziata.
L’alchimista cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. Il portamonete di fustagno, che portava sempre legato alla cintura, urtò su un trumeau producendo un tintinnio metallico. I tacchi delle sue scarpe di capretto risuonarono nel silenzio sul pavimento di marmo. Si fermò e sfiorò delicatamente la parrucca per sincerarsi che fosse al suo posto.
La seconda volta che si aggirò per il salotto, passò l’indice sui mobili laccati e fece cadere un libro. La Mort de César, “La morte di Cesare”, recitava la copertina. Era di Voltaire, l’autore preferito di Annika. Lo raccolse svogliatamente, lo sfogliò con disinteresse e lo rimise dov’era un istante prima.
Si era trasferito in quella villa nobiliare affacciata sull’incantevole baia subito dopo la fuga da Roma. Si trattava di un edificio relativamente recente che Annika aveva eredito con i suoi soliti metodi discutibili. Era composto da tre piani, ingentiliti da fregi di marmo, pilastrini e due avancorpi simmetrici che lo facevano assomigliare alle ville del Brenta. Collocato sull’estrema punta di uno dei caruggi della cittadina, che tanto gli ricordavano le calli veneziane, aveva alimentato molte voci tra gli abitanti del borgo.
Nessuno conosceva i proprietari. Si diceva fossero nobili del Regno di Napoli o addirittura che venissero dalle Americhe di cui tanto si favoleggiava. A parte un vicario cittadino e qualche mercante di passaggio, neanche un’anima pia andava mai a far visita ai padroni. Solo di tanto in tanto, un elegante nobiluomo genovese, con l’aria da medico o forse da istitutore, ne varcava la soglia.
Quella mattina era arrivato presto, con il suo solito viso corrucciato, la marsina nera e la parrucca impeccabile. Si era chiuso in una delle grandi stanze affrescate e da quel momento non si era più visto.
Non vedendolo uscire, Eliardo si era innervosito. Dopo quanto accaduto quella notte in Toscana aveva creduto che le cose tra lui e Annika sarebbero state diverse. Non era andata affatto così: riunitisi con i fidati servitori Rudolf e Lucia, la contessa era tornata il pezzo di ghiaccio che era sempre stata. Pur avendolo accolto nella sua villa affacciata su quello splendido golfo, i loro rapporti si erano quindi nuovamente congelati. Oltretutto, gli ultimi mesi erano stati vissuti in una perenne aria di tensione e paura.
Ogni mattina, Rudolf perlustrava la spiaggia e il paese, pronto a dare l’allarme per l’arrivo degli uomini di Aldobrandini. Guardie armate erano state assunte e dislocate nella proprietà a protezione della contessa. Non era però stato necessario sparare neppure un colpo d’avvertimento. Nessuno era venuto a cercarli.
In quei mesi, trascorsi lontano da tutto e da tutti, Annika era però caduta in un profondo umor nero. Aveva perfino smesso di consultare l’Omphalos. Quelle poche volte che durante i pasti Eliardo aveva osato introdurre l’argomento, lei lo aveva liquidato stizzita.
«Il principio dell’imponderabilità è il primo postulato del teorema», le diceva Eliardo. «Sei stata tu a insegnarmelo. Non puoi farci nulla…».
A quelle parole, di solito lei lasciava cadere la forchetta sulle preziose porcellane e si chiudeva in un silenzio meditabondo. Solo sentirne parlare, evidentemente, le provocava un’angoscia visibile a occhio nudo. Il suo viso, solitamente inespressivo come quello di una statua di cera, d’improvviso si accendeva di paura. L’idea stessa che il destino non fosse più nelle sue mani e che, anzi, scorresse a prescindere dal suo volere, doveva averla turbata più di un lutto.
E poi, come un fulmine a ciel sereno, tutto era cambiato. Una mattina di alcuni mesi prima, Annika aveva preso da parte Eliardo e gli aveva rivelato una notizia del tutto inattesa…

La porta bianca con inserti acquamarina si aprì lentamente e ne uscì una serva trafelata.
Eliardo si sporse per riuscire a guardare all’interno della stanza, ma il battente fu subito richiuso.
Attese che la donna tornasse e la fissò entrare con discrezione.
Con le mani informicolite, tornò ad affacciarsi alla finestra. Sulla spiaggia adesso si vedevano alcuni pescatori che caricavano le reti su un piccolo veliero bialbero.
Un nuovo fragore, all’interno del palazzo, richiamò la sua attenzione. Era come se qualcosa, al di là della porta, fosse caduto. Udì un urlo gutturale, poi un secondo grido. E infine il silenzio, rotto solo dal ticchettio dell’orologio a pendolo.
Ricominciò a camminare, ma non riuscì ad arrivare al divano che un nuovo verso, questa volta molto più acuto e continuo, riempì l’edificio.
Si immobilizzò, guardando senza fiato la porta, che si aprì proprio in quel momento. Sulla soglia comparve il medico genovese, le mani sporche di sangue ma il viso sorridente. «È un maschietto. Congratulazioni».