Capitolo 14
Vigna Lanciotti, rione Ripa, mercoledì 19 gennaio 1763.
Alle prime luci dell’alba.
Annika odiava profondamente la baronessa Éléonore d’Acoz.
Non era solo questione di usare un nome falso o di vivere in una città da perfetta forestiera. Per rendere credibile la sua nuova identità aveva dovuto abbandonare ciò che era, il suo accento, il palazzo che amava e molti dei suoi beni. Aveva dovuto cancellare una parte della sua stessa vita per calarsi in un’altra che non era la sua. Un po’ come vestire un abito usato, più stretto e scomodo del suo peggior corpetto di raso… la vera Annika, la vedova del conte Philippe d’Aumale della Loira, non l’avrebbe mai tollerato. La nuova Annika, invece, era costretta a farlo.
In quel momento, mentre scendeva dalla carrozza, era chiaramente infastidita.
«Baronessa d’Acoz, ben arrivata». Il fattore, un omino calvo con due guance rosse e una marsina logora, tenne lo sportello e le offrì il braccio.
Annika poggiò una scarpetta di velluto ricamato sul predellino e inspirò l’aria gelida del mattino. Indossava un ampio copricapo e un mantello rosso soppannato di vaio che la facevano assomigliare a un cardinale. Il viso era bianco di cipria e i boccoli della parrucca scendevano sulle spalle come i capelli di un angelo.
«Vi ringrazio, Elio», lo salutò, sbirciando da sotto la falda del cappello. Intorno a lei, le vigne erano coperte di ghiaccio e gli alberi scossi dal vento di quel gelido inverno. Un cane, in lontananza, verso la porta di San Paolo, abbaiava con insistenza. «Come va?»
«Ce se puzza dar freddo», sorrise l’uomo, che fece strada su un sentiero serpeggiante tra i filari che si dipanavano dalla casa patronale. Dal comignolo dell’edificio, stagliato su una collinetta, si innalzava una sottile colonna di fumo. «Entriamo. Vi ho preparato la cioccolata».
«Hanno finito?».
Elio si voltò verso di lei. Tra le mani adesso era comparsa una scatola di madreperla delle dimensioni di un libro. «Questo ramo è completo… guardate voi stessa».
Annika afferrò il contenitore e si diresse verso l’ingresso della casa. Mentre varcava la soglia, scoccò un’occhiata all’edificio retrostante, al di là di alcuni alberi. Un tempo era una stalla, ma era stata riconvertita per i suoi dipendenti subito dopo l’acquisto della proprietà. Per quanto fosse immersa tra le vigne, il suo tetto di legno svettava sotto il cielo grigio e si udivano sussurri simili a quelli di un mercato.
«Rudolf, va’ a controllare», gridò al suo factotum, che era rimasto accanto ai cavalli della carrozza. Subito dopo si infilò nel primo locale della fattoria: una cucina rivestita di betulla, con un tavolone al centro, un camino acceso e alcune padelle che pendevano dal soffitto. Si spogliò del mantello che lasciò cadere su una sedia e si accomodò davanti al fuoco stanco. «Vi ringrazio, Elio, potete andare».
L’omino fece schioccare i tacchi con fare militaresco, si inchinò e scomparve. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, la mente della contessa era già persa nei suoi pensieri.
Le ultime informazioni che aveva ricevuto avevano reso necessario esaminare la situazione da una prospettiva diversa. Il fatto di andare di persona alla vigna certamente era rischioso, ma d’altra parte, con una nuova variabile in gioco, se era necessario agire bisognava farlo il prima possibile.
Il bargello, con la sua recente visita a Lucia, le aveva dato un’informazione importante. La cedola, che Della Valle aveva nascosto per precauzione, era in suo possesso. Leggendola avrebbe compromesso definitivamente il suo alibi. D’altro canto, senza conoscerla nel dettaglio, non poteva sapere se sarebbe stato possibile coinvolgere la moglie di Della Valle o meno. Il tutto sempre stando attenti agli uomini che avevano ferito Lucia.
Allungò i piedi verso il camino e aprì la scatola che le aveva consegnato Elio. Conteneva alcuni fogli scritti a mano che portò a favore di luce.
Ipotesi 72306, 72307 e 72308.
Non c’era altro.
Prese a leggere, e tra numeri e tabelle individuò i dati che le servivano:
Influenza: 80, 84, 60.
Posizione: 72, 32, 23.
Salienza: 90, 95, 80.
Sbuffò di fronte a quei dati. Era come pensava.
«Hanno finito», borbottò Rudolf, entrando proprio in quel momento dalla cucina. Batté i piedi sul pavimento di legno per scrollare la neve. «Non c’è altro».
«Va bene», decretò lei, di spalle. «A questo punto, quello che rischia di più in questa vicenda è proprio il bargello».
«Si è messo nei guai?»
«Se avesse girato al largo sarebbe stato preferibile». Il suo tono era diventato improvvisamente sicuro. «Così, oltre che creare problemi a noi, li ha creati a sé stesso».
Rudolf deglutì, immaginando cosa intendesse la sua padrona.
«Cosa volete che faccia?».
Annika si alzò in piedi, lo sguardo puntato sempre sui documenti. Sentiva il fuoco crepitare nelle pieghe della gonna. «Forse possiamo sfruttarlo prima che sia troppo tardi. Purtroppo dobbiamo anche fare i conti con i tangheri che hanno ferito Lucia, e soprattutto con chi tira i loro fili».
Il gigante inarcò un sopracciglio, in attesa che la contessa d’Aumale chiarisse meglio quel concetto. Lo scoppiettare di un tocco di legna si inserì nella loro conversazione.
«A proposito, Lucia come sta?»
«Meglio». Per un istante il viso sempre turpe di Rudolf s’illuminò. Non aveva mai avuto un grande rapporto con la ragazza, ma essere gli unici due dipendenti che la contessa aveva portato con sé durante la fuga li aveva avvicinati. Per quanto lo trovasse strano, visto il suo passato con le donne, si era affezionato a lei.
«Allora portiamola a casa», sentenziò la contessa. «C’è bisogno di lei».
«E il bargello? Deve morire, quindi?»
«Credo sia inevitabile».