Capitolo 43
Fontana di Trevi, rione Trevi, sabato 12 febbraio 1763.
Metà mattina.
Il purosangue bianco sfrecciò galoppando di fronte alla scogliera di marmi della fontana di Trevi. Dalla nicchia, che occupava l’intera facciata del palazzo Poli, si ergevano quattro mastodontiche colonne che ricordavano l’arco di Trionfo. Al centro, la muscolosa statua di Oceano su un cocchio a forma di conchiglia, lo fissava arcigna.
Van Axel non ricambiò lo sguardo della statua e con gli zoccoli che rimbombavano sull’acciottolato proseguì fino all’angolo della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio.
Quella mattina, grazie al clima più clemente e a un tiepido sole che si affacciava sopra il Quirinale, le strade erano affollate di carrozze, nobili e popolani. Si udiva un gran tramestio e c’erano capannelli di preti in abito nero. Poco distante, notò un cicisbeo a seguito di una dama con un ampio cappello. Vista da dietro, avrebbe potuto essere chiunque, perfino la Dama nera che stava cercando.
Il capitano si fermò sotto il tendone di una bottega e smontò da cavallo.
Trovare la contessa era diventata quasi un’ossessione. Era stato lui, un anno e mezzo prima, a scoprire cosa sapeva fare con i numeri e con quel suo Libro del destino. Inizialmente aveva pensato fosse una cultrice dell’occulto, ma poi aveva visto le sue tabelle e gli uomini di cui si avvaleva per elaborarle. Una delle sue ipotesi prevedeva che, nel giro di poco, l’allora doge di Venezia Francesco Loredan dovesse morire. L’arresto della donna aveva convinto Van Axel che, con il suo intervento, la vita del Serenissimo principe si potesse salvare, ma non era stato così: pochi giorni dopo essere stata fermata, lei era fuggita e, nel maggio dell’anno successivo, Loredan era effettivamente morto proprio come aveva previsto.
Quell’evento era stato fonte di turbamento per Van Axel. Aveva già constatato cosa la Dama nera e la sua ciurma di matematici sapessero fare, ma prevedere la morte in maniera così precisa era un dono che non si poteva trascurare.
Van Axel e il suo comandante Mellan avevano così dedicato molte risorse a cercarla, eppure, dopo la sua fuga, la contessa era come scomparsa nel nulla. Neppure le lettere alle ambasciate veneziane d’Italia erano servite… almeno fino a pochi giorni prima, quando un banchiere romano aveva finalmente portato notizie di prima mano.

Van Axel legò il cavallo a lato della fontana ed estrasse dalla giubba la lista che stava seguendo. Era un elenco di luoghi in cui il cocchiere della baronessa d’Acoz ricordava di averla condotta negli ultimi giorni, prima che lei scomparisse.
La modisteria Da Odette era il quinto posto che visitava quella mattina. Entrò e sopra la porta una campanella annunciò il suo arrivo. Gli stivali scricchiolarono sulle assi del pavimento e il capitano si appoggiò al bancone.
«Buongiorno», lo salutò il cappellaio, sopraggiunto dal retrobottega. Era un uomo alto e magro, con indosso un’elegante marsina nera dalla quale sbucavano mani dalle dita affusolate e nodose. Il collo lungo sbucava dai pizzi della camicia e lo faceva assomigliare a una giraffa. «Come posso aiutarvi?».
Van Axel si guardò intorno. Dietro al bancone, su un pesante scaffale di noce, non c’erano altro che cappelli femminili, sistemati ordinatamente. Erano di ogni colore e materiale: di stoffa, di paglia, legati su busti di legno, con fiori finti, paillettes e nastri colorati.
«Buongiorno», esordì, affabile. «Vengo su incarico del governatore e cerco informazioni su una vostra cliente».
Il cappellaio rizzò le spalle, esaminando il tricorno malandato che Van Axel non aveva tolto. «Ho molte clienti nobili, ma se posso esservi utile…».
Il capitano sorrise. Condurre la ricerca in quel modo, visitando tutti i luoghi dove Madame d’Aumale era stata negli ultimi giorni, era come cercare un ago in un pagliaio. La speranza, con poche probabilità di successo, invero, era che qualcuno potesse fornire informazioni su una locanda o magari su un’altra casa in cui alloggiava. Il palazzo di piazza Colonna, nel quale non era più tornata, non era infatti suo, e non risultavano altre proprietà a nome della baronessa.
«Si chiama Éléonore d’Acoz e spesso è accompagnata da un’ancella di nome Lucia Bianchini».
Un sorriso si aprì sulle guance pallide dell’uomo. «Oh, certo che la conosco. La baronessa d’Acoz è una delle mie migliori clienti. È una ricca collezionista delle mie opere d’arte…».
«L’avete vista di recente?».
Il cappellaio strabuzzò gli occhi, come se stesse facendo un enorme sforzo di memoria. «Sì, qualche giorno fa. Ha ritirato un nuovo copricapo. Un modello Odette, a cui ho dato il nome della mia defunta moglie».
Van Axel non era molto avvezzo alla moda femminile. Seppur a Venezia fosse da molti considerato uno scapolo d’oro, di famiglia nobile e con influenze importanti, non aveva ancora trovato l’anima gemella. Non gli era quindi mai capitato di dover acquistare un cappello femminile, benché fosse accessorio indispensabile per ogni dama. Tantomeno un Odette.
«Si tratta di una delle mie migliori produzioni», spiegò il negoziante, interpretando l’espressione turbata del capitano. Armeggiò sotto il bancone e ne estrasse un libro ricoperto in vitellino. «Ogni Odette è un pezzo unico, fatto con le mie mani: l’ultimo della baronessa è di paglia intrecciata e senza calotta, acconciato con piccoli ricci fermati da crestine di pizzo rosa ornati di code e ruches». Orgoglioso, l’artigiano mostrò un dipinto sulla pagina del libro. Si vedeva una nobildonna con un morbido abito in stile rococò increspato sul petto e un cappello appariscente. «La mia defunta moglie era l’artista di casa: io mostro i suoi disegni alle mie clienti e poi realizzo il copricapo secondo i loro desideri. Quello scelto dalla baronessa è esattamente come questo».
Mentre l’uomo parlava, Van Axel ebbe un’idea.
«Sapete, abbiamo aperto la bottega più di vent’anni fa…», continuò l’uomo, ciarlando a ruota libera. Il capitano, però, aveva smesso di ascoltarlo. «Affari… carestia… morte… Chiesa… preti… bei tempi… si stava meglio quando si stava peggio. Scusatemi, messer, ma cosa fate?».
Mentre il cappellaio si perdeva in chiacchiere, Van Axel aveva tirato a sé il libro e ne aveva strappato la pagina.
«Non potete prenderla. Che intenzioni avete?».
Il capitano ignorò le lamentele e con il disegno della dama col cappello guadagnò l’uscita. Mentre il bottegaio girava attorno al bancone per provare a fermarlo, Van Axel aveva già raggiunto il suo purosangue bianco di fronte alla fontana di Trevi.
«Prendo in prestito il vostro disegno. Ve lo riporterò».

Venti minuti dopo, gli zoccoli del cavallo di Van Axel si fermarono in piazza di Spagna. Quello era il luogo in cui il cocchiere aveva detto di aver trasportato la contessa più volte. Era perfettamente logico: da quel groviglio di vie partiva la maggior parte delle vetture a noleggio. Era probabile quindi che la Dama nera si facesse accompagnare lì dalla sua carrozza, per poi prendere ogni volta un mezzo diverso. Ottimo sistema per far perdere le sue tracce a chi la stava cercando.
Il capitano smontò da cavallo e avanzò lentamente sulla piazza gremita di passanti. Contò le carrozze, tutte allineate sulla strada Condotti. Erano trentadue e non aveva alcuna certezza che nei giorni precedenti ci fossero state le stesse vetture e gli stessi cocchieri. Se voleva sapere dove la Dama nera era stata condotta doveva scegliere una strategia diversa.
Raggiunse la scalinata di Trinità dei Monti e individuò un predicatore che arringava a due donne e un ubriaco da una delle terrazze di marmo.
«Vi posso disturbare?», disse Van Axel, salendo i gradini a due a due e lanciando in aria una moneta.
Il predicatore l’afferrò al volo. «Il denaro è il cibo di satana», bofonchiò. Tuttavia voltò il capo verso il capitano. «Cosa volete?».
Van Axel gli mostrò il disegno della dama con il cappello. «Voi siete sempre qui, giusto?». Adocchiò i pochi averi del predicatore, una cassa di legno ai suoi piedi, alcuni abiti male in arnese e una coperta. «Avete mai visto una nobildonna con un cappello simile?».
L’uomo si accarezzò la barba e dopo un lungo respiro mosse la testa in quello che sembrò a Van Axel un “no” sincero. Un no che pregiudicava la sua possibilità di accaparrarsi un’altra moneta.
«Vi ringrazio». Il capitano girò i tacchi e si volse verso il triangolo della piazza. Setacciò con lo sguardo le sale da tè, i palazzi, le botteghe e la fontana della Barcaccia. Ancora una volta si sentì come un sarto alla ricerca del suo ago nel pagliaio di una fattoria.
Scese i gradini della scalinata e raggiunse un venditore ambulante di Pandolce fritto, a ridosso della fontana. Il bacchetto di legno era piuttosto ingombrante e privo di ruote, segno che si trattava di una postazione fissa.
«Avete visto questa donna?», gli domandò, a bruciapelo.
L’uomo, con i dolci già pronti in un involto, fissò prima Van Axel con aria insolente e poi il dipinto. «Due giuli».
Il capitano mise la mano in tasca e lanciò anche a lui una moneta, non pontificia ma veneziana. «L’avete vista o no?»
«Certo che l’ho vveduta. Ultimamente indossa una maschera bianca. Ma è lei».
Il cuore balzò nel petto del capitano. Una maschera bianca? Una bauta? «Quando l’avete vista?»
«Morte vorte. Anche due giorni fa, giovedì».
«Con chi era?»
«Co ’n bambino e ’na donna. Anche lei c’aveva ’a maschera».
«Avete visto dove è andata?». Van Axel fece scintillare un’altra moneta nella mano, senza darla al venditore.
«Io no, ma se offrite i vostri ducati al sor Piero, di sicuro vi c’accompagna». Il venditore si mosse verso la fila di carrozze su piazza Mignanelli. Raggiunse un calesse al quale era appoggiato un uomo corpulento che maneggiava una tabacchiera e lo tirò per un braccio. «Piero, er giovanotto vuole sapere dove hai portato la baronessa giovedì. Paga bene».

Un’ora dopo, il cavallo di Van Axel, sudato e stanco, arrestò la sua galoppata davanti al cancello della vigna Lanciotti, nel rione Ripa. Era una zona piuttosto rurale, con filari di vite che si estendevano a perdita d’occhio tra stradine battute e case che punteggiavano la collina. Sullo sfondo svettavano i resti dei palazzi imperiali di Roma antica e i più moderni edifici della Roma papale.
Il capitano fece un giro di perlustrazione. Il muro di recinzione della vigna non era molto alto, quindi issandosi sulle staffe della sella riusciva a vedere all’interno della proprietà. Tra i filari, individuò un edificio con il tetto a forma di capanna. L’architettura era rettangolare, con il portone sul lato corto e le finestre alte, simili a quelle di una vetreria. Tutto ricordava l’analogo edificio che aveva visitato a Venezia. Il luogo dove per la prima volta aveva visto le ipotesi della contessa. Era possibile che Madame d’Aumale avesse replicato a Roma l’edificio che ospitava i matematici?
Rimase in attesa e il suo dubbio venne fugato alcuni minuti dopo, quando la porta si aprì e da uno spiraglio riconobbe i lunghi tavoli tipici delle postazioni di Archita.