Capitolo 31

Piazza del Monte di Pietà, rione Regola, Roma.

Il capitano Van Axel, l’illustre ospite giunto a Roma con padre Ruffo la sera precedente, chiuse il pugno sull’elsa della spada. Le unghie sbiancarono per la forza della stretta.

«L’ultima volta non ho potuto salutarvi, alchimista», esclamò, con una punta di mestizia. Dopo quasi due anni di ricerche, grazie alla provvidenziale visita a Venezia del prete romano, era finalmente riu-scito a rintracciarlo. Troppo tardi per salvare il doge Loredan… ma ancora perfettamente in tempo per impossessarsi dei segreti della contessa.

«Capitano Van Axel, è un piacere rivedervi». La R morbida di Messer Ciriello scomparve di colpo, sostituita dalla tipica espressione sprezzante dei suoi occhi, ora puntati sul capitano. Il veneziano non era invecchiato di un giorno: sotto la cappa con il cappuccio che gli copriva la velada, c’era un giovane di bell’aspetto, i capelli lunghi legati sulla nuca e il viso pulito.

Eliardo mosse il capo a destra e a sinistra, in cerca di una via di fuga. Ma sembrava non ce ne fossero: era circondato da birri armati di tutto punto.

«Vedete, alchimista, a differenza di voi io mi mostro in viso. Non mi avvalgo di dardi avvelenati, scagliati nel buio». Il capitano si riferiva a quando, durante il trasporto della contessa verso le carceri veneziane, la barca su cui viaggiavano era stata investita da una pioggia di frecce. Alcuni dei suoi uomini erano caduti in acqua sotto l’effetto del veleno, altri, come lui, erano stati più fortunati. L’ultima cosa che aveva visto, prima di perdere i sensi, era stato il mantello di Rudolf che abbordava la bissona.

«Non so di cosa voi stiate parlando… ma se foste stato avvelenato, capitano, non sareste qui. O sbaglio?».

Il cavallo bianco di Van Axel scalpitò e il giovane dovette ammansirlo strattonando le redini. «Dov’è la vostra amica, la contessa d’Aumale?»

«Non lo so proprio. Mi dispiace».

«Non vorrete raccontarmi che la vostra visita al Banco è casuale». Aveva i muscoli della faccia tesi, come se stesse resistendo a una forte emozione. «Proprio nei giorni in cui sono arrivato a Roma sulle tracce di Rudolf e della vostra padrona?».

Eliardo non rispose. Il suo occhio allenato notò qualcosa dietro lo zaffo veneziano. Scintilla si era spostata, nitrendo nel freddo. Forse era stato proprio quel movimento a far innervosire il destriero bianco di Van Axel. «Non so proprio cosa dirvi, capitano», provò a guadagnare tempo. Non era armato, ma teneva il bastone da passeggio nascosto sotto il mantello. «Domandate al cardinale Aldobrandini, lui di certo vi dirà che io non ho niente a che fare con alcuna contessa».

«Veramente è proprio il cardinale che dovete ringraziare per la mia presenza: cercava informazioni su Ciriello e ha trovato me, che ne avevo molte su un certo de Brogl…».

Non riuscì a finire la frase, perché il manico d’argento del bastone di Eliardo brillò al riflesso della neve e scoccò sul selciato. L’alchimista si abbassò di colpo nel momento esatto in cui Scintilla, da sola, trottò verso di lui, forzando il blocco. Balzò sopra un crocchio di birri e atterrò con gli zoccoli esattamente davanti all’alchimista, come era stata addestrata a fare.

Van Axel fu preso alla sprovvista, riuscì solo a vedere il manto nero e lucido che gli scorreva di fianco ed Eliardo che saltava con agilità sulla staffa. Un nitrito e il clangore degli zoccoli ferrati riempì il silenzio.

«Fermatevi», urlò il capitano, ma inaspettatamente uno dei birri indietreggiò sulla sua cavalcatura per non essere travolto. L’alchimista individuò il pertugio nel cordone di contenimento e vi si incuneò abbassando il capo.

Eliardo affondò le ginocchia nei fianchi di Scintilla per spronarla.

Si voltò e, com’era prevedibile, diversi birri lo stavano già inseguendo.

Davanti a lui i vicoli ghiacciati scorrevano così velocemente che non era in grado di orientarsi. Attraversò Campo de’ Fiori e superò qualche bottega. Un gruppo di preti si schiacciò sul muro di un palazzo per non essere investito. Non sapeva esattamente dove andare e non aveva formulato un piano, ma almeno era riuscito a lasciarsi i birri alle spalle.

Trattenne il respiro e saltò un banchetto di ortaggi, all’ingresso di piazza della Cancelleria. Lì trovò un gran baccano per via delle carrozze ferme, dipinte e dorate, sorvegliate da palafrenieri in livrea.

Quando fu a circa metà del selciato, girò a sinistra, su piazza Pollaroli. Ad attenderlo trovò un assembramento di servette, garzoni e venditori infreddoliti. Quasi tutti si spostarono repentinamente al passaggio del suo cavallo lanciato al galoppo.

Van Axel era distante non più di cento passi. Il suo destriero galoppava in una sinfonia di zoccoli, con la criniera bianca che ondeggiava come una danzatrice a tempo di musica.

«Non lasciatelo scappare», gridò agli altri birri, che lo spalleggiavano sulle loro cavalcature.

Superarono il mercato e si infilarono in un vicolo, lo stesso dove era scomparso il cavallo nero di Eliardo. Da lì attraversarono una seconda piazza, più piccola della precedente, ma ancora più gremita di bancarelle, membri del clero e domestici infagottati. Lo spazio per infilarsi tra la gente ferma a mercanteggiare era angusto. Qualcuno protestò, altri urlarono per la paura.

I cavalli passarono uno dietro l’altro come una carovana impazzita. Non rallentarono, e il tambureggiare degli zoccoli echeggiò sui sampietrini.

Eliardo costeggiò la chiesa di Sant’Andrea e poi voltò sul sagrato. Lì, di fronte alla facciata barocca di marmo bianco, con le colonne e le cornici sporgenti, qualcuno aveva gettato della paglia per via del ghiaccio. Il suo cavallo la calpestò, scivolando appena, e con veemenza si lanciò in un vialone più ampio dei precedenti.

I palazzi signorili fiancheggiavano il sentiero lastricato, con le loro facciate di marmo punteggiate da colonne, bassorilievi e finestroni drappeggiati. Si voltò per vedere dove fossero i suoi inseguitori. Purtroppo erano ancora dietro di lui. Ne contò sei, con alla testa il destriero candido di Van Axel, che galoppava aggraziato dondolando la testa su e giù. Erano sempre più vicini e non era una bella notizia, perché Scintilla era ormai esausta. Non sapeva fino a quando sarebbe potuto fuggire a quel modo.

Giunto alla fine del viale si trovò a un bivio. Poteva andare a sinistra, verso piazza Navona, o a destra, verso Teatro Argentina. Scelse quest’ultimo, solo perché il vicolo tra due palazzoni grigi era più stretto. E fu un errore. A differenza che davanti alla chiesa, lì il ghiaccio non era stato coperto dalla paglia. Scintilla scivolò. Proseguì ancora per un tratto, ma poi ondeggiò in avanti e piantò gli zoccoli anteriori per non cadere. Eliardò provò ad aggrapparsi alle redini, serrando i piedi nelle staffe. Ma non ci riuscì. La fidata murgese si fermò, rizzandosi sulle zampe posteriori e sbalzandolo all’indietro.

L’alchimista atterrò sulla schiena e un dolore lancinante gli esplose nelle ossa. Si sdraiò per terra proprio nell’istante in cui i suoi inseguitori gli puntarono addosso i moschetti.

Sconfitto, Eliardo portò le mani al viso. Non poteva saperlo – e di sicuro in quel momento non gli interessava –, ma non molto lontano da dov’era stato disarcionato si trovava la Curia di Pompeo. Era proprio lì, nello stesso luogo in cui lui sarebbe stato arrestato, che 1807 anni prima Giulio Cesare era stato assassinato.