Capitolo 28
Nei pressi del Duomo, Milano, lunedì 31 gennaio 1763.
Una settimana prima.
Il piccolo calesse sfrecciò al buio in uno dei vicoli adiacenti al Duomo, schizzando fango dalla ruote. Superò il Broletto e si arrestò sul ciglio della strada, non lontano dagli archi gotici della Loggia degli Orsi.
Lucia si strinse nel collo di pelliccia, diede uno zuccherino al cavallo arabo e scese sul selciato ghiacciato. La lampada del calesse disegnava un piccolo cerchio di luce attorno a lei, ma in fondo al vicolo, sulla parete di un palazzo, ardevano due lanterne di rame. Le seguì fino a che fu sicura di essere arrivata nel luogo corretto. L’insegna, incisa su una tavolaccia appesa a una catena, ritraeva una donna che suonava la ribeca. Da lì la denominazione del locale, il Rebecchino, che dava il nome all’intero rione.
La ragazza poggiò la mano sul maniglione e ripensò al modo in cui aveva trovato quel luogo. Partita da Roma diversi giorni prima, si era diretta al palazzo che la contessa aveva acquistato tra Varese e Como. Giunta nella terra dei laghi, aveva però scoperto che l’occupante non c’era più e che l’edificio era stato venduto. Con non poche difficoltà aveva ricostruito gli spostamenti dell’uomo che cercava, ma alla fine aveva avuto un’indicazione attendibile per Milano… per quella bettola a pochi passi dal Duomo.
Entrò titubante, scese alcuni gradini di sasso e si ritrovò catapultata in un locale che somigliava a una caverna. Era un’osteria alquanto equivoca, con poche lampade che riempivano il buio e la luce del camino che danzava alla musica di un clavicordo. Socchiuse le palpebre per abituarsi alla penombra e al fumo e si concentrò sugli avventori appoggiati al bancone. Erano tutti con il naso puntato sul piccolo palcoscenico in un angolo della sala: adesso, oltre all’arpeggio dello strumento in la minore, una voce maschile aveva cominciato a cantare un’aria orecchiabile. Fece due passi incerti sul tavolato e prestò attenzione alle parole della canzone:
Veloce girava, la nobile Dama
Al ritmo seguiva, la melodia
Nessuno sapeva, della sua vita la trama
Intrecciata com’era, con la fantasia.
Strega era detta, concubina di Plutone
Il buio era il suo Regno, la sua religione
Creatura fragile, la Dama appariva
Con passo agile, il cavaliere seguiva.
“La superbia va a cavallo e torna a piedi”, pensò. Era un detto delle sue parti, per descrivere il tipo di persona che stava cercando. Mai credenza popolare fu tanto appropriata a quella situazione.
Tirò un sospiro di sollievo, felice per averlo trovato, e continuò ad ascoltare la canzone, le cui parole non erano affatto casuali:
La sua bellezza splendeva,
La sua grazia affascinava
I suoi occhi brillavano,
Come lapilli di lava.
Chi fosse veramente, nessuno lo sapeva
La leggenda la dice, proveniente da Java
Fu rapita, di primavera
Per diventare… la Dama nera.
La musica proseguì ancora con alcuni accordi arpeggiati e poi si avviò alla conclusione in un calando. Il cantore si alzò in piedi e si inchinò più volte al pubblico. Qualcuno applaudì, la maggior parte invece tornò a scrutare il fondo dei boccali di cervogia.
«Bella canzone». Lucia si avvicinò guardinga e offrì la mano al musicista per una riverenza. Lui non si mosse. «Non ne sono certa, ma credo di conoscere la dama che vi ha ispirato…».
Il cantore, la barba ispida, le occhiaie, la parrucca raffazzonata e un giustacuore logoro e rattoppato, si limitò a osservarla come avrebbe fatto con uno scarafaggio.
«Caro Eliardo, è un piacere rivedervi», lo salutò Lucia, affabile. Visto che lui non si muoveva, fu lei stessa ad abbracciarlo con entrambe le mani. Fu un abbraccio lungo, come quello di due amici che non si vedevano da molto tempo, e alla fine, un po’ a malincuore, fu ricambiato.
«Come mi avete trovato?», le sussurrò lui in un orecchio.
«Non è stato facile, in effetti. Nessuno conosceva il figliastro del duca de Broglie ma più di una popolana ha descritto un giovane che rendeva le donne fertili e guariva gli infermi. Qualcuno, invero, ha anche detto di essere stato truffato… Ma poco importa, ora sono qui: non sapevo che cantaste».
Eliardo de Broglie, soprannominato l’alchimista per le doti che asseriva di possedere, si prodigò in un sorriso amaro. Si domandò se la ragazza fosse lì per un’ambasciata della contessa.
«Cosa vi è successo?», incalzò lei, guardandosi attorno. In quella bettola piena di donnacce e di ubriachi, la versione sbiadita dell’Eliardo che aveva davanti non sfigurava affatto. Ma dov’era finito l’uomo che aveva conosciuto? Il patrizio ai cui piedi cadevano le nobildonne veneziane?
«La contessa vi ha regalato un palazzo e l’avete venduto», lo sferzò, ancora, incredula. «Vi ha concesso una rendita da signore e siete in questo postaccio a guadagnarvi il pane?»
«Una mancia, più che una rendita…», sottolineò l’alchimista, scuotendo il capo. «E comunque non così generosa».
«Avete dilapidato tutto in poco più di un anno? Ma come è possibile?»
«I vizi costano». Era serio, non scherzava affatto.
«La contessa vi è stata molto riconoscente…».
«Riconoscente?». Eliardo soffocò un moto d’ira. Voglio che mi insegnate. Andiamo via e ricominciamo. Insieme. Quella sarebbe stata davvero riconoscenza per l’uomo che l’aveva aiutata, restituendola alla vita. Ma lei non aveva intenzione di condividere nessuna delle sue conoscenze, tantomeno quelle sull’Omphalos. E quanto a scappare insieme, be’, aveva capito che sarebbe stato impossibile. Si era limitata, quello sì, a dargli qualche ducato. Ma si sa, il denaro prima o poi finisce.
«Siete voi che avete insistito per andarvene», ribadì ancora Lucia.
«Non siete bene informata, mia cara».
«Ehi, maestro». L’oste, un omino occhialuto magro come un manico di scopa, lo chiamò da dietro il bancone. Agitò una bottiglia di Robecco, indicando il clavicordo. «Non vi pago per fare salotto. Suonate!».
Eliardo sollevò una mano per rassicurarlo e risalì sul palco, picchiettando con i tacchi sul legno. «Mi ha fatto piacere rivedervi, Lucia. Portate i miei saluti alla vostra padrona».
«Aspettate».
Lui si fermò, voltandosi. La luce di una candela gli danzò sul viso corrucciato. «Che c’è ancora?»
«La mia non è una visita di cortesia. La contessa ha bisogno di voi».
Ecco confermati i suoi sospetti. Ovviamente, Lucia non si sarebbe mossa da Roma se non ci fosse stata una ragione. Ciononostante aveva già deciso di ignorare ogni possibile offerta della Dama nera. Per esperienza sapeva che dandole ascolto ci si metteva nei guai. Ed era bravissimo a cacciarvisi da solo.
«Ascoltatemi». Lei gli sfiorò i pizzi della manica, parlando con tono supplichevole e quasi smarrito. «È questione di vita o di morte».
«E chi deve morire, questa volta?».
Lucia si scurì in volto. «Se non la aiutate… proprio la contessa d’Aumale».