Capitolo 66

Sestri Levante, Liguria. Diverse ore dopo.

Tarda notte, ora italica 7:00.

Eccitato, frastornato e anche impaurito, Eliardo uscì dalla villa avvolta nelle tenebre. Faceva freddo e il cielo stellato risplendeva sulla baia come un viso imbellettato attorno a un neo di seta.

Era diventato padre e, se solo si fermava a riflettere, non gli sembrava neppure vero. Lui, che aveva passato la vita tra un’avventura e l’altra, balzando da un letto a un altro, mai l’avrebbe creduto possibile. Eppure era accaduto.

Quando Annika gli aveva rivelato che quell’unica notte insieme aveva regalato frutti inattesi, si era fatto un’idea precisa su cosa sarebbe successo dopo. Aveva immaginato che il passo successivo sarebbe stato un matrimonio riparatore, ma ancora una volta si era sbagliato: la contessa non aveva minimamente intenzione di sposarsi una terza volta. E se anche l’avesse avuta, si ritrovò a riflettere Eliardo più tardi, certamente non avrebbe scelto uno come lui.

E allora? La soluzione era stata non pensare ad alcuna soluzione. La gravidanza si era così trascinata stancamente, con il medico che veniva di tanto in tanto e Annika che girovagava come uno spirito per la grande villa. Fino a che, quella mattina, il piccolo Jean-Jacques aveva finalmente visto la luce.

Jean-Jacques. Come Rousseau. Quello era stato il nome scelto da Annika, senza neppure chiedere il suo parere.

Nel momento in cui l’aveva preso in braccio per la prima volta, Eliardo aveva provato una grande eccitazione. Aveva sentito il corpicino caldo e in pochi istanti aveva cominciato a respirare all’unisono con lui.

«Sei padre, adesso», gli aveva ricordato lei, seduta sotto il grande baldacchino della camera ad angolo. La luce della finestra le rischiarava il viso ora rilassato e, per una volta, Eliardo aveva rivisto l’Annika che tanto gli piaceva.

Adesso era padre, certo, anche se non riusciva a prevedere quanto sarebbe durata la sua eccitazione e soprattutto quella della contessa. Per questo era frastornato, perché sapeva che da quel giorno in avanti avrebbe dovuto vivere nel tormento dell’incertezza. Cosa avrebbe fatto Annika? Come si sarebbe comportata? E soprattutto, cosa sarebbe accaduto se, davvero, gli uomini che la tallonavano fossero infine venuti a cercarla?

Quello era il motivo per il quale, oltre che eccitato e frastornato, era anche impaurito.

Stretto in una redingote ricamata con fili d’oro, Eliardo si incamminò in uno dei caruggi del borgo. A quell’ora non c’era anima viva e i suoi tacchi risuonarono nel silenzio della notte.

Superata la facciata scarna ed essenziale della chiesa di San Pietro in Vincoli, salì verso la collina a strapiombo sul mare. Costeggiò il convento dei cappuccini, con il mantello che disegnava ombre danzanti sui mattoni a vista, e giunto alla porta azionò il batacchio.

«Siete in ritardo», notò un frate, quando ancora l’eco del bronzo non si era neppure sopito. La pelle secca del suo viso lo faceva sembrare un muro malandato, pronto a scrostarsi.

«Oggi ho avuto da fare», replicò Eliardo, con spirito. Fece tintinnare il portamonete. «Vi darò venti scudi in più per il disturbo».

L’uomo si addolcì subito, scostò la seggiola accanto al portone, su cui evidentemente doveva averlo atteso, e fece entrare l’alchimista. L’androne a volta era rischiarato solo da una lampada appesa alla parete. Fece strada nell’attiguo e silenzioso chiosco e lo accompagnò alla cella che Eliardo aveva affittato alcuni mesi addietro.

«Dovete scomparire prima dell’alba», lo avvertì, immobile sulla porta con il braccio proteso ad attendere il denaro.

Eliardo annuì e gli mise alcune monete in mano. Poi si infilò nel locale e si chiuse il battente alle spalle.

Accese le cinque candele del candelabro d’argento e si dedicò a studiare il marchingegno. Lo aveva fatto portare in quella cella vuota del convento con un ingente investimento di denaro. Aveva dovuto pagare più uomini fidati, affinché andassero a Roma, lo smontassero e lo portassero fino in Liguria. Era stato necessario quasi un mese, soprattutto perché, per depistare eventuali sgherri di Aldobrandini, aveva dato istruzioni ben precise: aveva fatto dividere il carico su più carri e aveva chiesto agli uomini di percorrere strade diverse in tempi diversi. Alla fine, però, era riuscito a rimontarlo e a nasconderlo in quella cella del convento.

Naturalmente, in assenza dei matematici che lo facevano funzionare, non poteva certo elaborare complicate ipotesi sul futuro. Ma non era ciò che aveva in mente: lui non doveva verificare decine di migliaia di variabili per valutare le singole ricadute di ognuna. A lui ne interessava soltanto una, basata su quanto aveva raccontato Lucia, appena rientrata da Roma. Anche se la battaglia in Toscana di nove mesi prima non aveva dato gli esiti sperati, aveva infatti lasciato ancora una carta da giocare. Sapeva benissimo pure lui che fino a che Aldobrandini fosse stato in vita, Annika e ora il piccolo Jean-Jacques correvano un grave pericolo. Tuttavia c’era un dettaglio che forse poteva far tornare a suo favore…

Ammirò il grande marchingegno, una ragnatela di cavi e spolette che lo facevano assomigliare a uno strano veliero in miniatura. Azionò le lampade e la luce del fuoco, attraverso un elaborato sistema di specchi, convogliò i raggi sulla parete. A quel punto tirò fuori dalla redingote una scatoletta di radica che aveva sottratto dagli effetti personali di Annika e la aprì, estraendo una piccola pietra alchemica. L’Omphalos, così era chiamata la gemma che conteneva Il libro del destino.

La contessa non si sarebbe accorta che era scomparsa perché da quando erano arrivati in Liguria si era del tutto disinteressata della sua esistenza. Era come se ritenesse che il teorema, impersonato da quell’oggetto, fosse la causa del turbine di morte e violenza che l’aveva coinvolta. Ed era meglio così, perché, in quel modo, lui aveva la possibilità di agire…

Sistemò la pietra nell’alloggiamento del marchingegno e la luce delle candele riflessa dagli specchi disegnò sulla parete scritte e formule in greco.

Eliardo afferrò un foglio di pergamena e una penna d’oca. Intinse la punta nell’inchiostro e cominciò a scrivere.

Van Axel. Mellan. Venezia.