Capitolo 70
Al largo dell’isola di Creta.
Mattio Mellan avvistò il pennacchio dalla sua cabina.
La seconda nave armata da Eliardo, un gigantesco vascello a più vele e svariati ponti, era a poche miglia di distanza, oltre la linea dell’orizzonte. Si era tenuta sufficientemente lontana da non essere vista, e aveva in programma di avvicinarsi solo al termine dell’abbordaggio.
«Rotta di intercettazione», udì dal ponte. Le decine di marinai azionarono le cime e il grande veliero virò a tribordo.
«Preparate i cannoni», sibilò un’altra voce.
Il veliero, uno dei più grandi vascelli da guerra veneziani, ne disponeva di sessantasei e aveva un tonnellaggio quasi doppio rispetto alla galea papale. Eppure non era previsto che sparasse neppure un colpo. Se tutto fosse andato secondo i piani, gli zaffi veneziani sarebbero dovuti intervenire solo quando i pirati se ne fossero andati. L’idea di Eliardo era che il lavoro sporco fosse compiuto dai barbareschi, che avrebbero dovuto depredare la galea e soprattutto uccidere Aldobrandini. Le cose, a quanto sembrava dal fumo bianco che divideva in due il cielo azzurro, erano andate in modo diverso.

Il capitano della galea inquadrò il vascello con il suo binocolo. Aveva bandiera veneziana.
Sulle prime pensò che era quella la nave con la quale avrebbero dovuto incontrarsi e che i pirati erano stati uno sfortunato imprevisto. Non poteva però esserne sicuro e, nel dubbio, allertò i suoi uomini.
Mentre la grande nave si avvicinava, i sottufficiali addetti all’armamento prepararono i cannoni, muovendosi con agilità tra i pirati legati schiena contro schiena. Nel frattempo, la fregata barbaresca era riuscita a scollegare i ramponi e, issate le vele, si era allontanata dalla parte opposta. La galea, pesantemente danneggiata, adesso era isolata in mezzo al mare come una boa di segnalazione.
Dal veliero venne calata una scialuppa, che riempita di rematori e ufficiali si staccò agile dallo scafo. In pochi minuti i marinai in divisa veneziana arrivarono di fronte al bompresso della galea papale e furono aiutati a salire sul ponte.
«Avete avuto un incontro poco gradito, mi pare di vedere», osservò uno dei veneziani. Si trattava di messer Giuseppe, il cognato di Van Axel, che contro ogni suggerimento della famiglia aveva insistito per prendere parte alla missione.
«In questi mari è una triste consuetudine», concordò il capitano papale, facendo strada sul ponte. A loro si avvicinò Ennio Massimo Viviani, con una pistola in mano e il volto sporco di schizzi di sangue dei pirati.
«È stata una sfortuna che non siamo arrivati prima».
«Siamo stati in grado di metterli in fuga ugualmente». Viviani mostrò l’arma e socchiuse le labbra in un sorriso sdentato.
Messer Giuseppe annuì, constatando che almeno una decina di barbareschi di Tripoli era legata schiena contro schiena sul ponte. «Bene. Siamo al dunque».
«Dov’è la donna?». Incerto, padre Ruffo, un passo dietro Viviani, cercava di leggere l’espressione del giovane veneziano.
«Ho l’ordine di consegnarla personalmente al cardinale Aldobrandini di Carpi».
Il prete fece balenare lo sguardo sottocoperta e poi tornò a osservare la divisa candida di messer Giuseppe. «Temo che vi dovrete accontentare di noi».
Giuseppe si irrigidì. «Il cardinale non è sulla nave?»
«Dov’è la donna?», esclamò nuovamente Viviani. E questa volta, invece che verso l’assito del ponte, la pistola fu puntata al torace di messer Giuseppe.

Mellan si rese conto che qualcosa non andava scrutando la scena dalla grande vetrata a poppa.
Messer Giuseppe era evidentemente agitato: prese a gesticolare con le mani proprio nel momento in cui uno dei marinai gli puntò addosso l’arma. Le cose si stavano mettendo male.
Benché avesse programmato di restarsene chiuso nella cabina, decise di intervenire in prima persona. Sapeva che era rischioso perché qualcuno poteva vederlo: il Missier Grande in persona, il massimo esponente della forza pubblica della Serenissima, a capo di una missione contro una nave papale. Non era solo inopportuno e sconveniente, l’incidente diplomatico era fortemente probabile. D’altra parte, non era tipo da aspettare che la vendetta gli giungesse per mano altrui…
Uscì dalla cabina correndo e, mentre gli stivali rimbombavano sui gradini che portavano in coperta, si udì uno sparo.

Giuseppe si portò le mani insanguinate al volto. Incredulo, guardò la canna della pistola fumante e poi Viviani che aveva azionato il grilletto. Era stato colpito a una spalla e le gambe lo abbandonarono subito. Si inginocchiò, tremante di dolore.
«Voi non vi muovete», consigliò il capitano papale agli altri ufficiali, arrivati con la scialuppa. «Se volete tornare tutti interi sulla vostra nave… s’intende».
Mentre parlava, i fanti di marina, armati di tutto punto, si posizionarono attorno ai veneziani e li tennero sotto tiro con i moschetti.
«E adesso consegnateci la contessa».

«Armare… pronti a far fuoco». Il capitano del vascello veneziano era teso. Tutto stava andando nel peggiore dei modi. Non voleva essere accusato di aver affondato una galea papale, ma d’altra parte non poteva lasciare che i suoi ufficiali fossero tenuti prigionieri.
Si avvicinò al cannone e sussurrò un’istruzione all’orecchio dell’addetto agli armamenti. «Colpo di avvertimento».
Il cannone esplose una palla di piombo, che si inabissò poco distante dalla prua. Gli schizzi d’acqua si sollevarono come pennacchi di fumo.

Nello stesso istante un manipolo di zaffi salì a bordo di una scialuppa e si diresse silenzioso dietro la galea. Quando il secondo colpo di cannone lambì il pennone, loro erano già sotto la murata, pronti ad arrampicarsi.
«Buttate le armi», li spronò Mellan, alla testa del gruppetto. Era stato il primo a salire sulla barca e mentre i militari si fronteggiavano guardinghi dai rispettivi ponti, lui era ai remi.
Contemporaneamente, i pirati, lasciati incustoditi, si alzarono. Una coppia, legate assieme, corse verso i fanti di marina e li travolse facendoli cadere in mare. Nel volgere di pochi attimi si creò un parapiglia. Qualcuno sparò. Dai moschetti del vascello partirono colpi e i veneziani liberarono i barbareschi con due sciabolate bene assestate sulle cime. Questi ultimi si riappropriarono delle loro armi, tutte ammucchiate sul ponte, e le puntarono contro i romani.
A quel punto, Mellan provò ad allontanarsi. Schivò una sciabolata e con un calcio fece rotolare il fante che lo stava fronteggiando.
Un secondo romano gli fu alle spalle, armato di coltello. Mellan lo evitò una prima volta e poi una seconda, ma cadde, inciampando su una cima arrotolata sul ponte.
Un istante prima che il soldato affondasse un fendente su di lui, uno sparo fece roteare il volto dell’aggressore.
Il Missier Grande si girò e vide messer Giuseppe, inginocchiato, dolorante per la ferita, ma con il braccio teso e la pistola stretta in pugno.

Padre Ruffo si rifugiò sottocoperta. Ansimava per la paura.
Giunto alla porta della cabina del cardinale la aprì con foga e vi si chiuse dentro.
Si inginocchiò verso il crocifisso appeso al battente e recitò il Padre nostro.

Mellan, liberatosi degli aggressori, scese da solo i gradini che portavano alla stiva.
I militari veneziani, in numero doppio rispetto ai papali, non avrebbero avuto bisogno di molto tempo per prendere il sopravvento. La situazione però era sfuggita di mano: se la galea fosse ritornata a Roma, certamente ci sarebbero state conseguenze sulle relazioni con il Papato. Per quella ragione, la nave non doveva tornare… e neppure i suoi passeggeri.
Strinse la mano attorno al calcio d’osso della sua pistola e si avventurò nel corridoio scricchiolante della galea. La luce del giorno filtrava dal ponte superiore e lo spazio per camminare era angusto e ostruito da sacchi di iuta.
Mossi alcuni passi incerti, il Missier Grande individuò l’unica cabina. Al di là della porta, tra le urla che venivano dall’alto, si percepivano distintamente preghiere convulse.
Mise le mani sulla maniglia, pronto a punire il colpevole del ferimento di Van Axel, puntò l’arma e spalancò la porta.
Padre Ruffo, completamente solo, alzò il capo con fare supplichevole.
Mellan cercò il cardinale e non fu necessario molto tempo per capire che non c’era.
Una risata di nervosismo gli sgorgò dal profondo delle viscere. Scosse il capo, sconsolato. Aldobrandini non era stato ai patti: non era andato personalmente allo scambio come da accordi. Ancora una volta li aveva giocati.