Capitolo 52

Palazzo di Venezia, rione Pigna. Più tardi.

Metà mattina.

Il maestro di casa a palazzo di Venezia era abituato a coccolare gli ospiti dell’ambasciatore Giustinian.

Quella mattina, Lodovico Van Axel non si era alzato all’alba come al solito, e così l’uomo bussò alla sua porta smaltata di bianco. Non ricevendo risposta, entrò nella grande camera da letto con il pavimento di legno lucido a lisca di pesce e aprì le imposte.

«La colazione è servita», annunciò a indirizzo del capitano, prono in una posizione innaturale sotto il baldacchino del letto. «Vi sentite male?».

Van Axel si voltò, emettendo un muggito. Era ancora vestito, con i calzoni al ginocchio, gli stivali e la velada orlata d’argento. La parrucca era arruffata e il tricorno abbandonato su uno dei trumeau gemelli con intagli dorati alla moda parigina. «Perché… ho quest’aria?», farfugliò a fatica. I fumi dell’alcol della notte precedente gli perforarono le membra.

Erano anni che non beveva, ma dopo la disfatta alla vigna aveva il morale sotto i tacchi. L’ultima volta che si era ubriacato a quel modo era stata in seguito a una delusione d’amore o forse a uno dei tanti litigi con il padre. La sua famiglia, tra le più abbienti della Serenissima, aveva pianificato per l’unico erede maschio una fulminea carriera politica, ma a lui non era stato chiesto nulla. Figlio degli ideali illuministici che i genitori tanto aborrivano, si era sempre opposto a quel destino preconfezionato. In seguito a numerosi alterchi tra le mura dal palazzo Soranzo, era così fuggito di casa per rifugiarsi dalla nonna materna, che di fatto l’aveva cresciuto.

La sua carriera negli zaffi da barca era cominciata quasi per caso, quando aveva conosciuto il Missier Grande Mattio Mellan. Concordi entrambi con il pensiero dei sofisti, ambedue credevano nel principio di uguaglianza degli uomini e nei valori di tolleranza e libertà. Avevano vent’anni di differenza, ma tra loro c’era stata subito una certa affinità.

La strada che aveva intrapreso Mellan fu quindi seguita, quasi come un riflesso, anche da Van Axel. Era il modo migliore, si era convinto Lodovico, per servire la Repubblica senza contravvenire ai suoi princìpi illuministici. Il Missier Grande l’aveva preso sotto la sua ala protettiva ed era diventato per lui quasi una seconda famiglia.

E adesso, dopo mille avventure al suo fianco, Van Axel si sentiva distrutto per aver fallito nella missione più importante: la contessa d’Aumale gli era sfuggita come una scritta incisa nell’acqua. Credeva di averla finalmente trovata, ma gli era scivolata di mano ancora una volta. Per Venezia e per il doge, che contavano su di lui, era un brutto colpo, tale da gettare Van Axel nello sconforto.

Come avrebbe fatto a ritrovarla, se la strada per Roma era stata percorsa solo grazie a una coincidenza fortunata? Non aveva altri indizi a cui attaccarsi. E anche se li avesse avuti, comunque, adesso che lei sapeva di essere assediata, avrebbe fatto in modo di rendere vano ogni suo sforzo.

«Vi occorre un buon caffè, capitano», lo stuzzicò il maestro di casa.

Alla luce delle imposte, Van Axel faticò a inquadrarlo. La silhouette disegnava un uomo pingue, con una marsina nera, una camicia bianca di pizzo e la pelle emaciata. Teneva le mani incrociate all’altezza del petto e aveva il biasimo disegnato sul suo volto.

«C’è ancora del Cordiale?»

«Temo di no, capitano, gli alcolici a colazione non sono contemplati. Ho però fatto preparare per voi alcuni dolci veneziani». Di gran passo, il maestro di casa attraversò la stanza e mostrò un vassoio d’argento sistemato su un tavolo bene imbandito. Ne tolse il coperchio a cupola, rivelando un piatto di pan dei dogi, un pane dolce a base di miele, fichi e noci. Di fianco c’erano anche i bussolai di Burano e i mori, il tutto contornato da porcellane finissime e accompagnato da caffè caldo e cioccolata.

«Non ho fame». Il capitano si alzò in piedi e si trascinò accanto allo scrittorio. La specchiera, sormontata da una cornice d’avorio, gli restituì un viso stanco, con le occhiaie e la barba lunga. Poggiò le mani sulla penna d’oca, la intinse nel calamaio ma subito dopo cambiò idea. Presto avrebbe dovuto scrivere a Mellan una missiva per comunicare la sua disfatta e annunciare il ritorno a Venezia. Ma prima doveva prendere una boccata d’aria.

«Fate preparare il mio cavallo», ordinò al maestro, mentre inforcava la porta ticchettando con i tacchi sul pavimento.

Attraversò l’ala del palazzo che gli era stata riservata e, sceso dal grande scalone d’onore, si ritrovò nel portico affacciato sulla chiesa di San Marco. Da lì, all’aria fredda del mattino, raggiunse le stalle.

Dieci minuti più tardi i portoni dell’edificio si spalancarono su piazza Venezia e il capitano uscì in groppa al suo destriero bianco.

Ai piedi del Campidoglio c’era un gran baccano per via degli zoccoli dei cavalli che scalpitavano e delle urla dei cocchieri ai passanti. Sul marciapiede ciarlavano dame riccamente abbigliate, nobili e preti. Molti preti. Molti di più di quanti fosse abituato a vederne a Venezia. Per essere una città in declino, con il popolo alla fame sul punto di rovesciare l’ordine costituito, i paladini della Chiesa se ne andavano in giro indisturbati.

Van Axel inspirò a fondo l’aria mattutina, sentendosi subito meglio. Fece schioccare il frustino e il cavallo si mosse verso il Corso. Riuscì però a percorrere solo un breve tratto, perché una carrozza nera gli tagliò la strada. Il suo cavallo si sollevò sulle zampe posteriori, nitrendo per lo spavento, ma Van Axel riuscì ad ammansirlo accarezzandolo sulle crine del collo.

«Come vi permettete?», tuonò verso il vetturino fermo sull’acciottolato. Ma l’insulto successivo gli restò in gola.

Dalla carrozza scese Ennio Massimo Viviani con un’espressione truce e uno schioppo in mano.

Van Axel comprese all’istante che quella non era una visita di cortesia.

«Cosa volete?»

«Alzate le mani, capitano». Il mercenario si avvicinò alla cavalcatura irrequieta di Van Axel. Accanto a lui, altri tre sgherri circondarono il veneziano.