Capitolo 48

Ravenna, regno dei franchi, Anno Domini 787.

976 anni prima…

La notizia che re Carlo avrebbe visitato Ravenna di ritorno da Roma arrivò pochi giorni dopo la Pasqua.

In quegli anni, a seguito del florido periodo esarcale in cui si era imposta come punto di riferimento bizantino in Italia, la città viveva un periodo di crisi e di declino. La popolazione di un tempo, composta da cittadini romani provenienti dalla Grecia e dall’Oriente, era in forte calo. I mercanti, i banchieri, i notai, i medici che avevano reso Ravenna nobile al pari di Costantinopoli se ne andavano e i commerci diminuivano.

Nonostante le difficoltà, le guerre con i longobardi e le dispute con Roma, l’arcivescovo Grazioso aveva tuttavia deciso di tributare un’accoglienza solenne al re. Oltre al potere religioso, grazie alle libertà concesse dal sovrano carolingio, esercitava di fatto anche il potere temporale e aveva tutto l’interesse a mantenerlo.

«Voglio che ogni pieve, ogni palazzo, ogni statua brilli come una corona d’argento», aveva ordinato ai suoi notabili.

I lavori si erano concentrati sulle vie d’accesso alla città e sul percorso che Carlo avrebbe compiuto al suo arrivo. Sarebbe entrato a Ravenna da sud, costeggiando l’acquedotto di Traiano; sarebbe passato davanti al vecchio palazzo di Teodorico, agli Ostiarj e infine avrebbe assistito alla funzione al tempio di San Martino.

Fu proprio fuori dalla città, nell’alveo del fiume Ronco – dove sopravvivevano alcuni piloni dell’antico acquedotto – che furono rinvenute le due casse di legno. Gli operai al lavoro per la costruzione di un piccolo palco destinato alla sosta del re non compresero di cosa si trattasse, ma fecero chiamare il loro responsabile, che a sua volta chiamò il proprio. Un freddo pomeriggio di quella primavera, i due involucri cosparsi di pece furono quindi portati all’arcivescovo Grazioso, a San Martino di Tours.

Il religioso, ritiratosi in preghiera in attesa del sovrano, era un uomo semplice e concreto ma conosceva la politica. Sapeva esattamente il motivo per il quale re Carlo aveva deciso di passare da Ravenna. Da qualche tempo si diceva che volesse far diventare Aquisgrana, la città in cui aveva deciso di portare il centro del suo regno, una grande capitale. Vi avrebbe costruito un nuovo palazzo e una superba cappella e, con il benestare di papa Adriano, aveva asportato da Roma marmi, colonne e statue per abbellirli. Viste le ricchezze della sua città, era prevedibile che avrebbe fatto lo stesso anche a Ravenna.

«Che cosa sono?», indagò l’arcivescovo, rivolgendosi a Leone, il giovane patrizio che aveva fatto trasportare le due casse di legno. In piedi al centro dell’alta navata della chiesa, faceva guizzare gli occhietti sui due contenitori. Erano molto antichi, impolverati e ossidati sui bordi di metallo, ma tutto sommato in buono stato.

«Sono venute alla luce durante la costruzione del palco», affermò il giovanotto, stretto nel mantello e nel farsetto di pelle di lontra. «Recano sui bordi iscrizioni in greco. Per questo ho pensato di portarle alla vostra attenzione».

«Apritele».

Leone fece un cenno a due servitori che lo spalleggiavano. Il coperchio venne rimosso e la luce cangiante del timpano inondò il contenuto dopo oltre settecento anni.

L’arcivescovo Grazioso si avvicinò di un passo, accarezzandosi il mento barbuto. «Sono pergamene antiche», constatò. «Molte pergamene antiche».

Alcuni giorni dopo, il sovrano carolingio giunse finalmente a Ravenna. Il suo convoglio, composto da carrozze, carri e cavalieri, attraversò le vie addobbate a festa che Grazioso aveva fatto impreziosire con petali di rosa e drappi colorati. Come programmato visitò gli Ostiarj, ai quali fece dono della loro chiesa di San Pietro in Armentario, e si fermò al tempio di San Martino in Calo aureo.

L’arcivescovo salutò il sovrano con una riverenza davanti al quadriportico della chiesa, che svettava alta con la sua facciata in mattoni e la bifora in marmo. I cittadini, tenuti a bada dall’esercito, erano un po’ ovunque, festanti, e soffocavano il re con i loro applausi e le urla di giubilo.

«Bene arrivata, sua maestà».

Carlo salutò con compostezza. Era un uomo di mezza età e teneva il mento talmente alzato da sembrare che stesse esaminando il copricapo di Grazioso. Indossava una camicia di lino sopra la quale era adagiata una tunica orlata di seta, un paio di calzoni e un mantello azzurro. Tra le mani cingeva una daga con l’elsa d’oro.

«Ravenna vi dà il benvenuto», affermò ancora l’arcivescovo, gesticolando. Così dicendo, si fece da parte, per invitare il sovrano a seguirlo all’interno della chiesa.

Carlo, immobile sul sagrato, si guardò attorno ammirato. Ciò che aveva veduto l’aveva colpito. I palazzi, ingentiliti da fregi, bassorilievi e colonne, erano degni di una capitale. I mosaici che i longobardi avevano lasciato rendevano i luoghi di culto preziosi, così come le statue di bronzo che abbellivano le piazze. Si mosse verso i portoni della chiesa, spalancati e adornati con corone di fiori. Mentre camminava notò la statua equestre di Teodorico, che dominava un’altura. Non avrebbe sfigurato ad Aquisgrana, si disse.

«So che vi piacciono le opere d’arte e le anticherie», arringò Grazioso, subito dopo aver officiato una breve funzione. «Vi ho fatto preparare qualche presente per rendere omaggio alla vostra visita». Fece strada, costeggiando le colonne sormontate dai superbi mosaici del Nuovo Testamento, e si fermò nel nartèce. In quell’angolo della basilica, ora inondata dalla luce obliqua del pomeriggio che penetrava dalle alte finestre, erano stati sistemati i doni: statue, piccoli gioielli, dipinti, una decina di decorazioni musive che erano state asportate dai muri di più chiese. C’erano anche due scrigni nuovi, impreziositi da pietre lucenti e fregi d’oro.

«La vostra ospitalità mi era nota, arcivescovo», commentò re Carlo, con voce stentorea. «L’autonomia da Roma giova ai vostri affari, vedo».

Non era esattamente così. Benché Ravenna fosse sostanzialmente indipendente dal Papato, le ingerenze della Santa Sede erano sempre più moleste. Gli arcivescovi, abituati ai privilegi dell’epoca bizantina, sempre più spesso si rifiutavano di sottomettersi al papa. Quella era la ragione principale per la quale Grazioso voleva ingraziarsi il re. Sapeva che, oltre ai piccoli doni accatastati in quel canto, Carlo si sarebbe preso i ben più ingombranti marmi, capitelli e colonne che voleva destinare al suo palazzo. Ma faceva parte del gioco: il semplice fatto che il sovrano avesse accennato all’argomento dell’autonomia era comunque positivo per Ravenna.

Il sovrano si avvicinò ai doni e, dopo aver contemplato i mosaici, si concentrò sui due scrigni di foggia recente. Ciò che lo colpì fu il contenuto, che invece appariva ben più antico. Si inginocchiò, poggiandosi all’elsa, e con cura afferrò una delle pergamene.

«Archita di Taras», lesse, con interesse.

Sbatté le palpebre, lanciando occhiate prima all’arcivescovo, inchinato dietro di lui, e poi al testo vergato di nero. Non capì subito cosa stava osservando e l’esatta portata di quegli scritti millenari. L’avrebbe però compresa poco tempo dopo, al suo rientro ad Aquisgrana.