Capitolo 71

Abbazia benedettina di Fleury, Francia, estate del 1716.

48 anni prima…

Il giovane Philippe d’Aumale, conte della Loira, entrò nella biblioteca di prima mattina. Aveva il suo solito sorriso affabile disegnato sul viso sbarbato ed era pronto a elargire qualche facezia di spirito ai domenicani.

Nato venticinque anni prima, era figlio del conte Jean-Baptiste d’Aumale, tesoriere dell’Artiglieria di re Luigi XIV, e di María Teresa Eguía, figlia unica di un medico. Maggiore di nove fratelli, solo lui e un altro erano riusciti a raggiungere l’età adulta. Come primogenito, era stato chiamato a seguire le orme del padre e a iscriversi, a soli quattordici anni, alla Sorbona di Parigi per intraprendere gli studi da avvocato.

Ebbe come insegnanti i fedelissimi di Colbert, che lo avviarono ai grandi classici e allo studio del diritto romano e francese. Pur essendo il latino la sua materia preferita, tuttavia non aveva interesse per la legge: non riuscì quindi a superare neppure un esame. Ciò che catturò invece la sua attenzione furono gli scritti di Antoine Arnauld, filosofo e matematico, uno dei capofila del giansenismo avversato dai gesuiti.

Iniziò quindi a frequentare di nascosto le lezioni di scienze, dove la Chiesa, tra alti e bassi, aveva tentato più volte di impedire l’insegnamento del cartesianismo. Il giovane Philippe mal tollerava quell’atteggiamento, che giudicava un’intromissione bella e buona.

Decise così di lasciare la Sorbona e continuare lo studio delle matematiche superiori, come Eulero, da autodidatta. Lo fece nell’abbazia benedettina di Fleury, la cui biblioteca era una miniera dei migliori manoscritti dell’epoca.

«Padre Anselmo», scherzò quella mattina, tenendo tra le mani una candela e camminando tra gli scrittoi su cui erano seduti i benedettini. «Avete un nuovo taglio di capelli, oggi?».

Il frate, un anziano con un monocolo sull’occhio destro e il viso punteggiato di lentiggini, lo sopportava a fatica. Ma d’altra parte quello scapestrato era figlio del conte d’Aumale e l’abate gli aveva garantito accesso completo alla biblioteca.

«Caro Philippe», gli fece eco, fissando un punto indefinito nella lunga navata fiancheggiata da archi e delimitata da file di librerie che si perdevano nel buio. «Parlate così perché siete invidioso: se foste come me non avreste l’obbligo di indossare la parrucca che tanto aborrite».

Il giovanotto, impettito in un’elegante casacca militaresca dai bottoni dorati, sorrise e si sistemò il ciuffo ribaldo della lunga parrucca nera, che gli scendeva fino alle spalle. Sebbene, per volere di Luigi XIV, fosse divenuto un accessorio obbligato, lui odiava indossarla e se poteva evitarlo lo faceva. Non quella mattina però: suo padre Jean-Baptiste ci teneva all’etichetta, e visto che aveva mal digerito il suo ritiro dalla Sorbona cercava di assecondare i suoi voleri almeno vestendo come si confaceva a un nobile del suo lignaggio.

Durante quello scambio di battute, gli altri benedettini, ciascuno con una candela a illuminare la postazione, alzarono il capo. Qualcuno era divertito, la maggior parte, con calamaio in mano e lunghi testi da trascrivere, era invece infastidita da quella presenza.

Philippe si spostò, ballonzolando. Andò a occupare il suo solito tavolo, accanto alla piccola finestra da cui si scorgeva la torre campanaria che svettava sui prati verdi di Saint-Benoît-sur-Loire.

«Avete trovato il testo che cercavo?», domandò, questa volta più serio, a indirizzo di padre Anselmo.

«Talete, Archita, Ippocrate?»

«Proprio loro. Sto dedicando qualche giorno allo studio del ragionamento ab absurdo».

Anselmo annuì. «Per absurdo», scherzò, «lo troverete sul vostro tavolo».

Philippe si rese conto che in cima alla pila di manoscritti che aveva lasciato il giorno precedente, in effetti ce n’era uno in più, molto antico. Aveva il dorso in vitellino ed era rilegato con maestria. Ringraziò, muovendo impercettibilmente il mento, e lo prese tra le mani. Portatolo a favore di luce lo aprì lentamente e percepì l’odore pungente del passato: muffa, mista a polvere e forse anche a incenso.

«Ippocrate di Chio», lesse. Era stato un matematico greco e, a quanto pareva, era stato espulso dalla prestigiosa scuola pitagorica per condotta riprovevole. Mentre contemplava il testo, a Philippe sfuggì una risata, riflettendo su quanto simile poteva essere la sua vita a quella di Ippocrate. Picchiettò con le dita sul foglio al tempo di una sonata che danzava nella sua mente da quella mattina, e fu allora che la vide.

Con il senno di poi si convinse che, se non avesse mosso l’indice al tempo di musica proprio su quella pagina, probabilmente non se ne sarebbe mai accorto. Invece era accaduto. Il suo picchiettare ritmico fece comparire la punta di una piuma nella rilegatura del libro.

Philippe si chinò sul tavolo. Subito dopo si voltò, pensando che qualche burlone benedettino poteva avergli giocato uno scherzo. Ma nessuno lo guardava, tutti erano concentrati sui loro libri, in un silenzio da eruditi.

Afferrò la penna d’oca e, senza intingerla nell’inchiostro, avvicinò la punta al dorso del manoscritto. Richiuse il libro e lo riaprì più volte. La piuma era inserita nel vitellino della copertina ed era ripiegata all’interno, come per segnalare una pagina specifica del libro. Seguì il suo istinto e, lentamente, lo aprì. Sfogliando con calma le fini pagine, ne raggiunse una centrale. In effetti, il piccolo oggetto era stato posizionato quasi come un segnalibro piegato su sé stesso: una parte raggiungeva il testo riguardante il matematico Archita di Taras, e l’altra si incuneava tra il risguardo incollato e la rilegatura in cuoio.

Incuriosito, Philippe alzò nuovamente lo sguardo. No, nessuno dei frati aveva visto i suoi movimenti repentini all’inseguimento di una piuma nascosta… Tornò a osservare il manoscritto, e più i suoi occhi prendevano confidenza con quello strano modo di contrassegnare una pagina, più voleva saperne.

Tirò il mantello sulle spalle e con un’abile movimento del polso fece scomparire il libro antico sotto l’ascella. Si alzò in piedi e si diresse al grande portone ad arco che sovrastava la postazione di padre Anselmo.

«Andate già via, conte?»

«Questa mattina non mi sento molto bene, in effetti».

Anselmo lo scrutò di sghembo. Era chiaramente contento che il giovanotto si togliesse di torno e non fece troppi sforzi per nasconderlo. «A domani, allora».

«A domani», mormorò Philippe, quando era già nel lungo e stretto corridoio gotico. Si diresse di gran passo verso l’ambulacro che custodiva le spoglie di san Benedetto, trasferite da Montecassino dal secondo abate di Fleury per proteggerle dai longobardi. Scese alcuni gradini di pietra e si ritrovò in una cappella rotonda, di venti piedi per venti, con un sarcofago al centro. Si sedette su una panca ed estrasse il libro da sotto il mantello. C’era penombra e la luce delle lanterne che ardevano alle pareti ballonzolava mossa dalla corrente d’aria.

Portò il libro a favore di fiamma e lo riaprì. Sì, più la guardava, più quella piuma bianca e grigia, forse di una tortora, sembrava posizionata appositamente per unire due punti del libro: una pagina in cui erano raccontate la vita e le opere di Archita di Taras, e il risguardo del libro.

Non sapeva molto del pitagorico a capo degli italioti: conosceva superficialmente solo i suoi studi sulle medie proporzionali applicate ai tetracordi e sapeva che era stato anche un politico di spicco.

Afferrò il coltello che portava alla cintura e aprì il manoscritto. Il risguardo era un foglio unico di carta spessa, che sulla destra fungeva da prima pagina del libro. Era incollato in modo sapiente e la colla aderiva bene su tutto il perimetro. Non si notavano gobbe o pieghe anomale tipiche di operazioni che potevano suggerire che fosse stato sollevato e poi rincollato. Questo significava che chi aveva inserito la piuma lo aveva fatto quando il libro era stato scritto…

Infilò il coltello e, stando bene attento a non rovinare la pagina ruvida, lo fece passare sotto il bordo. Scollò delicatamente la carta di quel tanto da far fuoriuscire la piuma, che si depositò dolcemente per terra. Ma non cadde da sola, fu seguita da un foglio, piccolo, quadrato, che era stato nascosto nel risguardo.

Lo raccolse: era una lettera, molto antica, molto più del libro, a giudicare dalla carta ingiallita. Le lettere erano di un colore grigio chiaro, scolorite dal tempo, e qua e là non erano perfettamente visibili. Nonostante tutto, si convinse però di riuscire a leggerlo e cominciò dalla prima riga:

Octava resurrectionis nisi qui uniendis…

Seguiva un testo, tutto in latino, abbastanza criptico. Parlava di Yahweh, nome con il quale i giudei identificavano Nostro Signore, del tempio di Salomone, di calici e di sapienza. C’era però anche un riferimento che suscitò il suo interesse: Linea della Rosa.

Non gli ci volle molto a trovare nella biblioteca di padre Anselmo un libro in cui si parlava di Jacques de Molay, l’ultimo Gran maestro dell’ordine templare, e delle opere lasciate dai suoi seguaci. Scovò un riferimento al meridiano di Parigi, detto Linea della Rosa, e anche un trafiletto in cui si parlava di una cappella in una cittadina di nome Roslin, nella lontana Scozia. La missiva celata dalla piuma poteva avere quindi a che fare con la cappella di San Matteo, conosciuta anche come cappella di Rosslyn?