Capitolo 12
Palazzo Madama, rione Sant’Eustachio, martedì 18 gennaio 1763.
All’imbrunire.
La facciata punteggiata di fregi, putti e panoplie del palazzo Madama svettava sulla piazza innevata, tra l’insula della chiesa di San Luigi dei Francesi e la Sapienza.
Da quando Benedetto XIV aveva destinato l’edificio ad affari di Stato, all’interno avevano sede il tribunale del governatore e gli uffici di polizia, che non a caso era chiamata “la Madama”.
Gli sgherri ammantellati di Ennio Massimo Viviani vi arrivarono che il cielo cominciava a scurire, con un vento ruvido proveniente da nord. Entrarono dal portone principale sormontato dal balcone e si diressero al cortile d’onore. Da lì sarebbero saliti nell’ufficio dell’uomo che cercavano, il bargello Costante Altieri, nell’ala occupata dai birri di città.
L’organizzazione della giustizia a Roma era complessa. Oltre ai birri del governatore, di cui Altieri era a capo, anche altri tribunali come la Camera apostolica, il Vicario, l’Auditor Camerae e il Senatore avevano i loro esecutori. Gli unici che si occupavano del controllo del territorio erano però quelli con sede a palazzo Madama, che si distinguevano in compagnie di “città” e di “campagna”. A capo di ciascuna c’era un bargello, eletto dal tribunale, che sceglieva personalmente i suoi uomini. Il più delle volte, non essendoci regole che disciplinavano l’appartenenza al corpo, il bargello si circondava di individui con dubbie qualità morali. I requisiti erano pochi, oltre a sapere usare le armi, l’importante era che fossero persone a lui fidate.
Uno dei birri che Altieri aveva scelto era un calabrese cupo con un paio di baffoni neri. Si chiamava Bruno Capolupo e, come molti suoi colleghi birri, era un forestiero. Su di lui il bargello si era sbagliato: non era una persona fidata.
«Facimm ambress’», ruggì a indirizzo del gruppetto di uomini capeggiato da Viviani. I due si conoscevano da anni e, in cambio di venti scudi, aveva accettato di farli entrare nell’ufficio del suo capo.
«Er Dalmata non c’è?»
«È stato qui per pranzo e poi non lo abbiamo più visto», replicò Capolupo, salendo i gradini dello scalone. I riflessi d’oro degli stucchi baluginarono sul pugnale che teneva legato alla cintura.
«Da quanti birri è accompagnato?»
«Cinque o sei, agli ordini del caporale Moraca».
«Non sapete se quando è stato qui oggi ha lasciato un documento?».
Capolupo sorrise e tra le labbra comparve una schiera di denti neri. «Non voglio saperlo… Se mi scoprono a frugare tra le sue cose mi ritrovo su un patibolo a Campo de’ Fiori».
«E quindi lo lasciate fare a noi…».
Giunti su un ballatoio, i birri voltarono a sinistra e si immisero su un lungo corridoio. Oltre le finestre si notavano i campanili e la cupola della chiesa di Sant’Agnese.
Camminarono parecchio, incrociando funzionari pubblici in marsina, preti e perfino un cardinale con lo zucchetto sul capo. Nessuno li degnò di più di uno sguardo.
«Eccoci, questo è l’ufficio», illustrò Capolupo, dinanzi a una porta sbarrata con la maniglia in ferro. «Avete cinque minuti. Io resto qui. Se arriva qualcuno do due colpi di tosse e vado via».
«Entriamo», ordinò Viviani a uno dei suoi uomini. Aprirono con la chiave che Capolupo gli fece scivolare tra le mani e scomparirono all’interno.
L’ufficio era piccolo ma sorprendentemente ordinato. Il tipico ordine militare, con pile di documenti ben allineate su un tavolone di noce, una sedia e un candelabro. La libreria era alquanto sfornita, la stufa spenta e dalla finestra coperta da tende lise penetrava una luce fioca e acquosa. C’era un solo dipinto, raffigurante la Vergine.
Viviani si avvicinò al tavolo e, attento a non mettere carte fuori posto, cominciò a leggere la pila di documenti. Rapporti, verbali, ricevute sugli incerti che il bargello pagava ai suoi uomini. Aprì un cassetto e vi trovò un sacchetto pieno di monete. Non le toccò e si dedicò a un’altra pila di documenti, che non fece in tempo a esaminare.
Un colpo di tosse e subito dopo un altro lo costrinsero a fermarsi. Imprecò silenziosamente, ricurvo tra la sedia e la scrivania, con lo stivale sul poggiapiedi. Anche i suoi tre compari si immobilizzarono, come nella scena di un dipinto del Caravaggio. Quello vicino alla porta estrasse il coltello.
Trascorsero attimi interminabili. Se il bargello fosse rientrato in ufficio in quel momento, sarebbe stato un problema. Di certo avrebbe avuto la sua scorta e probabilmente sarebbero venuti alle mani.
Con il fiato sospeso, Viviani osservò le ombre sotto la porta. Una. Due. Tre persone. L’ultimo si fermò, biascicò qualcosa di incomprensibile e abbassò la maniglia.
Viviani chiuse gli occhi. Sorprendentemente, però, non successe nulla. La maniglia tornò al suo posto e l’ombra scomparve lungo il corridoio.
«Falso allarme!». La voce di Capolupo arrivò poco dopo, netta alle loro orecchie. Viviani tirò un sospiro di sollievo e non perse altro tempo. Fece passare tutti i documenti sulla scrivania. Aprì ogni tiretto dello scrittoio e ogni sportello, ma il documento che cercava non era lì.

Dieci minuti più tardi, di nuovo nel cortile di palazzo Madama, strinse la mano a Capolupo.
«Mi dispiace che non abbiate trovato ciò che cercavate».
«Non avete altro per me?».
Il calabrese si prodigò in un inchino raffazzonato. «Sapevo che me l’avreste chiesto».
«Sciogliete la lingua, allora».
Capolupo accostò le sue labbra all’orecchio di Viviani. Emanava un puzzo di abiti lerci e il suo fiato sembrava quello di un cane. A parte quello, però, ciò che sussurrò fu di indubbio interesse.
«Quanto volete?»
«Altri dieci scudi… una miseria in confronto a ciò che sto per dirvi».
Viviani si accarezzò le guance butterate ed estrasse il denaro, mettendolo tra le mani del calabrese. «Parlate, adesso».
«Questa mattina, nella bettola dove è morto Della Valle, è rimasta ferita una nobildonna».
Viviani lo sapeva bene. Era stato lui insieme ai suoi uomini, per errore, a uccidere il carbonaio. La donna era stata un danno non prevedibile.
«Er Dalmata andrà da lei, all’ospedale del Santo Spirito».