Capitolo 3

Vestigia del ponte Trionfale, rione Trastevere, martedì 18 gennaio 1763.

Diverse ore dopo l’omicidio di Della Valle.

Tarda mattinata.

Il piccolo Domenico corse a testa bassa sulla neve.

Intorno a lui i vicoli di Trastevere si erano animati di gente, uscita di casa appena aveva veduto i primi raggi di sole affacciarsi sul Cupolone. Lungo le strade tortuose e inzaccherate di fanghiglia ghiacciata erano allineati edifici bassi e casette popolari con la facciata dipinta. C’erano anche diversi negozi con insegne arrugginite, bettole, laboratori di artigiani dalle porte sbarrate e botteghe di ciarpame svenduto a poco prezzo. Tutto, dai banchi degli ortolani semivuoti alle popolane infreddolite negli scialli, odorava di povertà e stenti.

Sbucato sulla strada della Longara, si ritrovò il Tevere alla sua destra. Gli edifici del centro svettavano oltre gli argini e le poche barche che scendevano verso l’isola Tiberina arrancavano nel ghiaccio. Di fronte a lui si ergeva l’imponente mole dell’ospedale del Santo Spirito.

Che ironia, il luogo dove era cresciuto adesso rappresentava una svolta per la sua vita.

«Va’… non ti fermare per niente al mondo», gli aveva ordinato la padrona di casa poco prima, dopo avergli consegnato la lettera. «È questione di vita o di morte».

E così Domenico aveva fatto: aveva attraversato i rioni di Eustachio e Pigna, con le loro chiese, i loro palazzi e le loro casupole e poi, attraverso il ponte Sisto, era giunto a Trastevere.

E ora era lì, dove i projetti come lui, i trovatelli, venivano abbandonati nella ruota degli esposti dell’ospedale. Come gli altri piccoli che avevano avuto la sua stessa sorte, era stato registrato come filius m. ignotae, dove la “m.” stava per matris, a significare appunto figlio di madre ignota. Spesso il punto veniva omesso e da lì era nato l’appellativo filius mignotae, da cui era derivato il termine “mignotta”.

Domenico, undici anni e genitori sconosciuti, era quindi un figlio di mignotta, che a differenza di altri aveva però avuto un colpo di fortuna. Trovato pelle e ossa sul ciglio di una strada, la dama di compagnia di una nobildonna gli aveva offerto caciocavallo e pane. E da quella volta era stato il servitore più fedele di Lucia e di tutta la sua strana combriccola.

«Eccoti finalmente». Rudolf, che parlava poco e quando lo faceva si esprimeva a monosillabi, gli andò incontro, affondando gli stivali nella poltiglia.

Si trovavano sul ciglio di una spiaggetta, tra la porta di Santo Spirito e un attracco fluviale di fortuna. A tratti, nella neve, si affacciavano delle macchie d’erba d’un marrone sbiadito. Una cima da ormeggio era stata tesa tra le due rive del Tevere e alcuni barcaroli la sfruttavano per trasbordare passeggeri da una sponda all’altra.

«Ho portato questa per te», sorrise Domenico, ansimante.

Rudolf scoccò un’occhiata al sigillo di ceralacca e se la fece dare. Era stato lui, due ore prima, a rimandare a casa il bambino, per raccontare l’accaduto e riferirgli poi istruzioni. Lucia, ferita al ventre, era stata trasportata d’urgenza all’ospedale, e non potendo farsi vedere dai birri il gigante aveva deciso di attendere poco lontano. Anche se non ci sperava troppo, dopo averla vista svenuta e sanguinante nella taverna, era sempre possibile che uscisse con le sue gambe…

«Dammi qua», esclamò Rudolf, aprendo l’involto. «Hai raccontato tutto come ti ho detto?».

Domenico annuì.

«Con chi hai parlato? Con la padrona?».

Il bambino annuì di nuovo.

«Poi hai aspettato?»

«Sì».

«Fino a che non ti ha dato questa?».

Domenico continuò a muovere la testa su e giù. Anche lui aveva visto Lucia venire caricata su una portantina, ferita e priva di senno, ed era preoccupato. Gli era però stato insegnato a non fare domande e a parlare solo quando veniva interrogato. Quindi rimase muto, sperando di veder comparire il sorriso bianco della ragazza da uno dei finestroni dell’ospedale.

Rudolf alzò lo sguardo dallo scritto e si concentrò sulle rovine del ponte Trionfale, poco più che sassi che si opponevano alla corrente del Tevere. Sapeva che era chiamato così perché in età imperiale era attraversato dagli eserciti romani di ritorno dalle campagne vittoriose.

Campagne vittoriose.

Se non avesse fatto ciò che chiedeva la lettera non ne avrebbe più viste per molto tempo, di sortite con quell’esito.

Studiò nuovamente la lettera, che forniva un’indicazione per la strada delle Grazie e vicolo de’ Fenili. Non c’era mai stato ma sapeva che erano dalle parti della chiesa di San Teodoro, sul Palatino. Ciò che lo lasciò più perplesso fu però la parte finale del documento, che si concludeva con un lapidario UCCIDILA.

Non era la prima volta che riceveva ordini simili, ma in quel frangente gli sembrò un’ingiustizia eccessiva. In ogni caso, non lasciava spazio per molte interpretazioni…