Capitolo 63

Acquisgrana, capitale dell’Impero, gennaio dell’Anno Domini 814.

949 anni prima…

I cattivi presagi erano cominciati già da tre inverni. Il palazzo reale di Aix-la-Chapelle aveva tremato più volte e la lunga galleria che lo collegava alla chiesa era crollata. Il ponte di legno a Magonza, sul Reno, costato oltre dieci anni di fatiche, era stato divorato da un incendio. Infine, la basilica era stata colpita da un fulmine che aveva provocato la caduta dal pinnacolo del globo crucigero, il simbolo imperiale.

Eginardo, il biografo di re Carlo, aveva documentato tutti quegli avvenimenti, ma solo lui sapeva che non erano opera del demonio. Semplicemente, erano eventi destinati ad accadere. Eventi che se non fossero stati previsti in anticipo, sarebbero perfino potuti costare la morte al sovrano.

Ma Carlo, dopo aver studiato a fondo le pergamene riportate da Ravenna, aveva imparato a leggere il suo futuro e quello del mondo che ruotava attorno all’impero.

In pochi anni, dopo l’incoronazione, era riuscito a costruire una capitale che dominava terre dalla Marca di Spagna fino alla Carinzia, dalla Frisia fino a Roma. Oltre ai matematici che gli erano stati necessari per formulare le prime ipotesi, aveva fatto accorrere artisti, letterati e intellettuali. In breve tempo aveva trasformato Aquisgrana nel centro propulsore di una vera rinascita culturale.

Ciò che non era riuscito a fare era però trasformare il suo impero in qualcosa di duraturo. Fin dal capitolare chiamato divisio regnorum aveva deciso infatti che alla sua morte i territori sarebbero stati divisi in tre parti, tra i suoi eredi maschi legittimi. A Carlo, il primogenito, sarebbe andata la Francia, a Pipino l’Italia e a Ludovico l’Aquitania e la Guascogna. Nessuno dei tre avrebbe ereditato i rotoli e gli stessi sarebbero stati divisi in parti eguali e nascosti in tre luoghi diversi. Nella mente del sovrano, solo chi dei suoi eredi fosse stato sufficientemente meritevole, e fosse riuscito a ritrovarli e riunificarli, avrebbe potuto giovarsi del loro potere. Non aveva previsto però, a dispetto delle pergamene, che due dei suoi tre figli sarebbero morti prima di lui.

«Maestà». Il ciambellano, accanto all’imponente letto a baldacchino di re Carlo, gli tamponò la fronte con un panno umido. Il sovrano era scavato in volto e, durante la lunga malattia, il suo fisico possente si era afflosciato come un giunco.

Il re, dolorante per bruciori lancinanti all’addome, si voltò. La stanza, che occupava un’intera ala degli appartamenti imperiali, aveva le finestre chiuse ed era illuminata da numerosi candelabri. «È tornato?», sussurrò a fatica.

«Sì, maestà», squillò una voce, ai piedi del letto. «Sono qui».

Carlo lo inquadrò a fatica nella penombra. Eginardo, la corazza luccicante e il viso fiero, era ritto come un generale che contempla un campo di battaglia, le mani dietro la schiena e il capo chino.

«Hai completato la missione?»

«Sì, maestà. Ho fatto quanto mi avete chiesto». Il biografo del re fece un passo avanti, entrando nel cono di luce di un candelabro. Attese in silenzio che il sovrano ordinasse a tutti gli occupanti di lasciare la stanza.

Con grande fatica, in effetti, Carlo alzò un braccio e il ciambellano fece sgombrare i numerosi servitori immobili ad attendere ordini. Anche lui uscì, calpestando con passi rispettosi i tappeti sul pavimento e chiudendosi il doppio battente alle spalle.

«Dimmi, Eginardo».

«Il viaggio è stato un successo: i rotoli destinati a quelle che dovevano essere le terre dei vostri figli Carlo e Pipino sono ancora dove decideste di nasconderli otto anni fa».

«Ti sei accertato che possano passare nelle mani solo di chi è davvero irreprensibile?».

Eginardo annuì. «Come da vostre istruzioni».

Carlo esalò un sospiro da anima morente. L’idea iniziale di occultare le pergamene e di sottoporre i suoi figli a prove per saggiarne il grado di affidabilità era stata superata dal principio di imponderabilità. Dei suoi tre figli era infatti rimasto solo Ludovico, il meno adatto dei tre a regnare.

«Hai sistemato l’ultima parte?».

Il biografo annuì di nuovo. «Certo, maestà, come mi avete ordinato».

«Ludovico sarà in grado di comprendere…?».

Eginardo sospirò. «Maestà, è quello che ci auguriamo. Ma se anche non vi riuscisse, avete programmato tutto come meglio non sarebbe stato possibile». Il biografo prese un respiro, misurando le parole. «Ciò che conta è che il teorema sia al sicuro. Prima o dopo, qualcuno integerrimo, timorato di Dio, davvero meritevole, sarà in grado di unificarlo, seguendo il percorso da voi tracciato».

A sentire quelle rassicurazioni, il re si lasciò andare sul morbido guanciale. La testa, con i lunghi capelli d’argento arruffati, sprofondò nella lana.

Ludovico, il fisico asciutto e il viso appuntito, quasi femminile, fu scortato nella stanza da letto del padre poche ore più tardi.

Il sovrano era stato lavato e vestito e ora era sdraiato sul letto con le mani in grembo come se dormisse. Aveva la corona ferrea sul capo.

«Si è addormentato, maestà». Eginardo si adoperò in un cerimonioso inchino. «Senza più svegliarsi…».

Ludovico si fece il segno della croce rivolto al giaciglio del re, contornato da ceri ardenti. «È tornato dal Padre Nostro», commentò fra sé.

Eginardo annuì e subito dopo estrasse da sotto il mantello una lettera. Abbassò il capo e, tenendola con entrambe le mani, la porse all’unico erede. «Vostro padre mi ha chiesto di consegnarvela personalmente».

Il giovane fissò prima il letterato e poi l’involto di carta ingiallita. Lo afferrò e lo diede immediatamente a uno dei lacchè inginocchiati alle sue spalle.

Un’ora dopo, da solo, l’unico erede in vita di re Carlo varcò le porte bronzee della Cappella Palatina. Come ogni volta che vi metteva piede, fu abbagliato dalla magnificenza di quell’ala del Palazzo imperiale voluta da suo padre. Le alte vetrate sembravano pensate per riverberare e intensificare la luce del giorno. E poi gli ori, i mosaici, i fregi provenienti da Ravenna, i magnifici pilastri che sorreggevano le volta a crociera. Tutto era carico di simboli e studiato per impressionare il visitatore, come se l’immenso prestigio dell’imperatore non potesse essere racchiuso in uno spazio meno sfarzoso di quello.

Ammirò trasognante il trono e infine si decise ad aprire il biglietto che gli aveva consegnato Eginardo. Conteneva un testo molto breve, in latino, vergato con inchiostro nero.

Octava resurrectionis nisi qui uniendis…

“Nell’ottavo giorno della Resurrezione, nel tabernacolo del tempio di Salomone, dove la Linea della Rosa incontra Nostro Signore Yahweh e Shekhinah, è lì che giace il calice di tutte le sapienze”.