Capitolo 2

Palazzo del Sacro Monte di Pietà, rione Regola, mercoledì 9 febbraio.

Prima mattina.

L’ultima cassa fu scaricata dal pianale di legno del calesse con un tonfo sordo.

I facchini si fermarono a rifiatare. Sulla piazza semideserta, antistante all’austera facciata del banco, nevicava appena: fiocchi minuscoli e ghiacciati, simili a granelli di sale.

«Piacere di fare la vostra conoscenza, padre Ruffo», esordì il mercante Ciro Ciriello, con un’aristocratica R moscia. La sua cadenza tradiva origini napoletane e gli abiti erano così pregiati da brillare come un’armatura.

«La bolla di carico?». L’assistente del cardinal protettore del Sacro Monte di Pietà lo guardò appena, quasi con fastidio. Era ritto di fronte al portone aperto, stretto nel suo abito talare e coperto da un mantello che gli arrivava fino ai piedi. Teneva in mano una tavoletta di legno, a cui erano assicurati alcuni fogli di carta pergamena.

«Eccovi servito, una bolla per forzieri pieni di sassi». Affabile, messer Ciriello porse il documento al prete e si lasciò andare a un’altra battuta di spirito: «E anche nu poco di piombo».

Padre Ruffo afferrò il documento bagnato e lesse con calma.

Messer Ciro Ciriello. Totale 168 pezzi.

A quanto pareva, non mancava nulla. «Credo sia tutto in ordine», sentenziò. Poi si rivolse ai facchini: «Portate tutto dentro».

I quattro uomini, che battevano i piedi per terra per difendersi dal freddo, si mossero sotto gli occhi vigili delle tre guardie armate che avevano scortato Ciriello. Sollevarono la prima cassa e forse a causa della neve, forse per il peso, uno di loro scivolò. Barcollò all’indietro e fece cadere il baule, che si aprì, riversando il suo contenuto sul selciato.

Per un istante calò il silenzio. L’acqua della fontana, che fuoriusciva dalla bocca del mascherone, sembrò ghiacciarsi di colpo.

I facchini rimasero sgomenti: tra le assi di legno sbucavano lingotti d’oro lucente, con il simbolo del Regno di Napoli inciso chiaramente sulla sommità.

«Allontanatevi», ingiunse messer Ciriello. Batté il bastone da passeggio sul selciato e il suo cavallo, opportunamente addestrato, si avvicinò a lui. Anche le guardie si mossero verso i lingotti. «Allontanatevi. Via di qui. Non fatevi più vedere».

Il prete non si scompose e prestò invece attenzione ai facchini. Se solo avesse saputo leggere nelle loro menti, avrebbe avuto la conferma di cosa stavano pensando: tutto quell’oro di quei tempi? La povera gente si cibava di cicorie cotte o di carrube da cavallo e i preti si spartivano l’oro?

«Guardiamo il lato positivo… non dovrete aprire questo scrigno perché è già aperto». Per quanto volesse essere scherzoso, il tono di Ciriello adesso si era fatto allarmato. Il suo viso era segnato da una palpitante angoscia, la stessa che ricordava avere il birro Ennio Massimo Viviani all’inizio di quella storia. Era nello stesso identico luogo e sembrava trascorso un secolo. Eppure, dalla morte del carbonaio erano passate solo tre settimane…

La mattina del 18 gennaio, poco dopo lo sparo che aveva strappato la vita a mastro Della Valle, i tre cavalieri in fuga si immisero al galoppo in piazza del Monte di Pietà. La percorsero tutta e si fermarono davanti al severo ingresso del Banco, i destrieri irrequieti che nitrivano nel freddo.

Padre Ruffo li attendeva ritto di fronte al portone aperto, nel medesimo luogo dove si sarebbe trovato tre settimane più tardi. «Cosa è successo?», domandò, leggendo una forte angoscia nel volto di Ennio Massimo Viviani, il suo birro più fidato.

«È capitata ’na rogna», bofonchiò quest’ultimo, aggrappato alla sella. Aveva un tono strascicato e le parole gli sfuggivano tra i denti come una sonata di fischi. Robusto e di mezz’età, i capelli rasati scemavano nella irsuta barba nera.

«La taverna?», incalzò il prete.

«Sì. C’è scappato er morto…». Di solito parlava poco ma quando lo faceva le sue parole avevano un tono lapidario. Come quella mattina: «Almeno mo’ non ce creerà più problemi».

Pochi minuti dopo, padre Ruffo saliva la scalinata d’alabastro del vicino palazzo Barberini ai Giubbonari. I suoi uomini gli avevano spiegato l’accaduto per filo e per segno e toccava a lui cospargersi il capo di cenere.

Giunto davanti a una porta smaltata di bianco con l’andatura di un condannato, bussò piano.

«Avanti», udì distintamente.

Ruffo abbassò la maniglia e mosse passi incerti all’interno della regale camera da letto. Il baldacchino imponente occupava la parte sinistra della stanza, un banchetto di stucchi, tendaggi, ori, mobilio laccato e quadri alle pareti. Dalla parte opposta era posizionato orizzontalmente uno scrittoio di radica ricoperto di carte.

«Tutto bene con la contabilità?». Di spalle, affacciato alla grande finestra, il cardinale Donato Aldobrandini di Carpi si schiarì la voce. Indossava una vestaglia di broccato rossa e delle babbucce ricamate.

«L’oro si accumula, come da vostro ordine…», si limitò a rispondere Ruffo.

«Avete preparato le cartolarizzazioni?»

«Sono quasi pronte».

«Molto bene».

Il protettore del Sacro Monte di Pietà, per i popolani più semplicemente l’uomo più potente della Curia, si voltò. Aveva la mandibola che sprofondava nel doppio mento e la pelle del viso lucida e senza rughe. Suscitava simpatia o paura, a seconda del momento. Mentre si avvicinava al letto, dove una figura voltata di spalle stava immobile sotto le lenzuola candide, tornò a rivolgersi a padre Ruffo. «E della questione di Girolamo Sciarra, avete saputo qualcosa?».

Il prete si dondolò sulle gambe, guardando incerto il pavimento.

«Era vera la storia del carbonaio?», insistette il cardinale. Si sedette sul bordo del materasso e prese ad accarezzare i lunghi capelli neri che sbucavano dalle lenzuola.

«Temo ci sia stato un problema…», balbettò Ruffo, con un filo di voce. «Il carbonaio è morto».

Donato Aldobrandini di Carpi inarcò un sopracciglio, più incuriosito che arrabbiato. Rimase in silenzio per alcuni istanti e poi socchiuse le labbra. «Se il tono non m’inganna, la vostra preoccupazione significa che era tutto vero».

«Parrebbe proprio di sì, purtroppo. Le dicerie erano vere».

Il protettore sembrava combattuto, come se volesse dire qualcos’altro. Il viso immobile sembrava quello di una statua. «Avevate un compito semplice: tutti smaniano per l’oro. Perché credete che lo danno a noi? Per la nostra bella faccia? Dovevate solo convincerlo».

«C’è stata una rissa, pare…». Ruffo indugiò. Sapeva che fornire troppi dettagli poteva ritorcersi contro di lui. Con la vicenda del carbonaio era stato superficiale: sarebbe dovuto andare di persona a porre le giuste domande. Cos’altro poteva pretendere dagli uomini di Viviani, se non che ci scappasse il morto?

«Non è necessario che vi dica io che un carbonaio non guadagna così tanto… neppure questo inverno». Aldobrandini si accigliò, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. «Sapete almeno da chi aveva avuto l’oro?»

«Purtroppo non lo so ancora. Ma conto di scoprirlo».

Il cardinal protettore inspirò a fondo, intendendo così mostrare tutta la sua esasperazione. «Va bene, Prospero. Cioè, va molto male…». Scosse il capo come un pendolo. «Cercate di portarmi più informazioni. E a questo punto mi toccherà parlare di persona con quell’idiota di Sciarra, se non è già troppo tardi».

Voltò le spalle e tornò accanto al letto. Significava che la conversazione era finita.

Appena padre Ruffo fu uscito silenziosamente, Aldobrandini scostò le lenzuola e ne scoprì una bambola di ceramica delle dimensioni di un bambino. I capelli erano veri, neri e lucidi, e mentre la prendeva in braccio con la cura che avrebbe riservato a un neonato, scivolarono lisci lungo la camicia da notte di seta.